Andrea Di Turi intervista il professor Carlo Borzaga, Presidente di Iris Network e di Euricse. (Scopri di più su: http://www.righthub.it/news-da-right-hub/10-news-da-right-hub/125-i-beni-comuni-nel-futuro-dell-impresa-sociale)

Presidente di Iris Network, la rete degli istituti di ricerca sull’impresa sociale, e di Euricse, Istituto Europeo di Ricerca sull'Impresa Cooperativa e Sociale, il professor Carlo Borzaga è uno dei maggiori esperti di economia sociale in Italia e in Europa. «Nonostante i tanti anni di crisi – dice -, la situazione per le imprese sociali è ancora positiva».

Che momento sta attraversando l’impresa sociale in Italia?

Per rispondere occorre intendersi su come si definisce l’impresa sociale. In generale, comunque, nei lunghi anni trascorsi dall’inizio della crisi, non ci sono stati grandi fenomeni di fallimenti che hanno riguardato l’impresa sociale e laddove ci sono stati problemi si è proceduto normalmente a fusioni. Se restringiamo poi il campo alle cooperative sociali, che rappresentano una quota consistente delle imprese sociali comunque le si definisca, negli anni tra il 2008 e il 2013 hanno aumentato gli occupati, gli investimenti, in modo consistente il valore della produzione: a confronto con l’andamento economico generale, dunque, l’impresa sociale non ha avuto sostanziali flessioni.

In quali settori potrebbe maggiormente svilupparsi?

Non nei servizi socio-assistenziali, dove gli spazi di crescita rimangono ma l’offerta è già piuttosto ampia. Credo piuttosto nei servizi di interesse generale che interessano le comunità: ad esempio cultura, ristrutturazione urbana, housing sociale, gestione di beni comuni.

Ci sono soprattutto i beni comuni nel futuro dell’impresa sociale?

Riguardo ai beni comuni, si sta assistendo a processi di progressiva strutturazione nella loro gestione da parte di gruppi cittadini. Il che è interessante anche in senso macroeconomico, perché le istituzioni comunitarie, proprio per la loro natura comunitaria, potrebbero essere quelle più capaci di attrarre risorse dai cittadini finalizzate allo sviluppo. L’impresa sociale, del resto, almeno in Italia è un fenomeno essenzialmente bottom-up. In questo senso ritengo che il fenomeno emergente della cooperative di comunità sia uno dei più interessanti da monitorare: assomiglia al modo con cui negli anni ’80 era nata la cooperazione sociale.

Cresce anche in Italia l’attenzione verso le benefit corporation: in questo contesto, che ruolo possono avere?

Si fa di solito un po’ di confusione in quest’ambito, ad esempio tra le benefit company, che sono istituite per legge, e le B Corp, che sono un marchio. In ogni caso, credo che introdurle in Italia, come forma che potremmo definire di Csr potenziata (corporate social responsibility, ndr), potrebbe soprattutto aiutare il legislatore a fare chiarezza rispetto a come deve essere definita l’impresa sociale nella legge Delega per la Riforma del Terzo settore.

E tra impresa sociale e sharing economy, vede possibilità di percorsi di sviluppo intrecciati?

Senza dubbio la sharing economy migliora le condizioni di vita, perché consente di avere dei servizi a costi inferiori. Ma distinguerei tra quella che si basa su meccanismi cooperativi e quella che si basa sul perfezionamento di meccanismi di mercato, perché sono due cose diverse. Chiaramente una sharing economy gestita con modalità cooperativa sarà più interessante per gli utenti, perché il gestore della piattaforma non tenderà a massimizzare i profitti, ma sarà interessato a garantire che chi utilizza quel servizio lo possa fare al costo più basso possibile.

Una maggiore diffusione fra le aziende profit di pratiche di social procurement potrebbe aiutare l’impresa sociale ad affermarsi ulteriormente?

Social procurement è un termine ancora poco utilizzato, anche se come attività è più presente di quanto non si creda: per la cooperazione sociale di inserimento lavorativo, ad esempio, una larga fetta del fatturato già proviene da collaborazioni con le imprese, che acquistano prodotti o servizi. Oppure pensiamo ai servizi di welfare aziendale, che spesso vengono richiesti alle cooperative. Questa attività potrebbe certamente essere più sviluppata, però, se vi fossero più imprese sociali che svolgono attività di potenziale interesse per l’imprenditore for profit. Anche perché le imprese italiane hanno sempre avuto un’attenzione molto alta nei confronti della loro comunità, solo che l’hanno dimostrato di solito con modalità tradizionali come ad esempio le donazioni o le sponsorizzazioni: laddove ci fossero imprese sociali che effettivamente sono nelle condizioni di lavorare per l’impresa profit, credo che non ci sarebbero grandi problemi per lo sviluppo del social procurement.

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