Dopo le scene di entusiasmo che abbiamo visto lunedì a Le Bourget a Parigi, ormai sono già stati fatti molti commenti sull'accordo raggiunto alla COP 21. In generale, tranne pochissime voci, l'accordo viene riconosciuto come positivo, o addirittura come molto positivo. (Scopri di più su: http://www.aggiornamentisociali.it/easyne2/LYT.aspx?Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento%3D13675)

Qui vorremmo condividere una prima analisi, che avrà bisogno di una lettura molto più attenta del testo, ma soprattutto avrà bisogno di un lungo periodo di implementazione. Solo questo darà una prospettiva reale, non solo delle capacità di negoziazione, ma della capacità di realizzare politiche coerenti. Per ora, ci limitiamo a elencare alcune questioni rilevanti.

Un accordo è sempre una cosa buona. Dopo parecchi anni di quello che è stato definito "l'impasse clima", raggiungere un accordo è un segnale molto positivo. Mentre stiamo assistendo a un mondo sconvolto da conflitti, e dove non c'è un reale progresso verso la necessaria governance globale, dobbiamo riconoscere che un accordo unanime firmato da 195 Paesi, su un tema così delicato come gli impatti climatici, è un fatto molto positivo. Sappiamo bene cosa vuol dire quando non c'è alcun accordo: nessuna capacità di sviluppare politiche efficaci, impossibilità di trovare i fondi necessari, più caos, incertezza, e, alla fine, l'imposizione della volontà della parte più potente, mai a favore di quella più vulnerabile. Un accordo di questo tipo, pur con tutti i suoi limiti, ci ricorda la superiorità morale del consenso, e l'importanza dei processi che lo generano.

Ora sappiamo dove sono i confini. Il limite al riscaldamento globale è inferiore a 1,5°C, e certamente al di sotto di 2°C. Questo è fondamentalmente ciò che dice l'accordo: siamo già al limite di ciò che è tollerabile. Ponendo come limite i 2°C, e chiaramente indicando la soglia desiderabile di 1,5°C l'accordo riconosce che l'unico percorso possibile per salvaguardare la sicurezza del pianeta è la riduzione totale delle emissioni di gas serra. E questo significa che dobbiamo andare verso un mondo in cui i combustibili fossili non possono essere più parte del nostro mix energetico. Potremo riuscirci o no, ci potrebbe volere molto più tempo di quanto auspicabile: ma ora sappiamo che questi sono i limiti.

Le responsabilità sono diverse, ma tutti hanno delle responsabilità. Il riconoscimento politico delle diverse responsabilità non può essere intesa come una deroga da tali responsabilità. E stiamo parlando di responsabilità a vari livelli: nazionale, regionale ma anche locali. L'accordo di Parigi permette una velocità doppia, e anche tripla, sia nel proporre gli obiettivi sia nel monitorarli. Non sarà facile: con i prezzi del petrolio al di sotto dei 50 dollari, sarà necessario molto coraggio politico per promuovere le energie rinnovabili nella misura necessaria, e questo è qualcosa che i Paesi produttori di petrolio sanno molto bene. Accade, in modo simile, con i Paesi che spendono milioni per sovvenzionare una produzione inefficiente di carbone. La transizione energetica avrà bisogno di governi molto coraggiosi, e sì, anche se in modi diversi, ognuno ha le proprie responsabilità.

La coerenza è l'unico terreno sufficientemente solido. Un accordo di questo tipo è ovviamente molto fragile, e non solo a causa di errori interni all'accordo stesso (stabilire obiettivi molto bassi, la mancanza di meccanismi di monitoraggio omogenei, ecc.); può succedere anche che altri accordi internazionali (in tema di commercio, biodiversità, brevetti) limitino, o riducano, l'ambizione di questo accordo fino a trasformarlo in qualcosa di irrilevante. Questo è un pezzo della governance globale che deve essere inserito in un quadro coerente delle relazioni internazionali. Solo questa coerenza permetterà alle parti di attuare l'accordo con l'ambizione necessaria.

Un altro fattore fondamentale è la trasparenza. Non è sufficiente costituire un fondo; e non è lo è nemmeno soddisfare gli impegni finanziari; oltre a tutto questo, ci deve essere un sistema per assicurare trasparenza nell'utilizzo di questi fondi. E ancora di più, abbiamo bisogno che questi fondi abbiano un impatto positivo sulla vita delle comunità, in particolare dei più vulnerabili. Non possiamo lasciare che, ancora una volta, queste risorse siano spese per immense infrastrutture, che servono solo al profitto di multinazionali occidentali o, peggio, a mantenere al potere crudeli dittatori. Il Fondo Verde non può essere un meccanismo per perpetuare situazioni di povertà, deve essere un vettore di trasformazione sociale e ambientale. Per seguire questi processi abbiamo bisogno di una società civile forte e coesa, che può fare la sorveglianza necessaria.

Al termine di queste due settimane la domanda che resta nell'aria è se tutto questo fosse davvero necessario. E per "tutto questo" intendiamo una conferenza costosa e stressante che riunisce decine di migliaia di persone, e che a volte è sembrato assomigliare più a uno spettacolo che a un evento politico. La questione è se si potrebbe sviluppare un meccanismo più armonioso, dinamico ed efficiente in cui i problemi potrebbero essere risolti senza passare attraverso la drammatizzazione e l'intensità di questi giorni a Parigi. Ma forse è necessaria questa catarsi, questa sensazione di essere vicino al baratro è ciò che dà la forza per reagire e per cambiare la direzione. Tuttavia questa purificazione, come ci insegna il teatro greco, avrà successo solo se farà la differenza nelle vite di coloro che già vivono nel baratro della povertà, dell'esclusione e della vulnerabilità.

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