Si consumano meno risorse naturali, ma nel bilancio pesano crisi e deindustrializzazione. (Scopri di più su: http://www.greenreport.it/news/economia-ecologica/bes-2015-istat-in-italia-migliora-la-qualita-dellambiente-e-una-buona-notizia/)

di Luca Aterini

Con la pubblicazione del terzo Rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) l’Istat offre oggi una prospettiva sullo stato di salute del Paese, fotografato nella sua complessità. Le dimensioni del benessere di una comunità rifiutano di essere imbrigliate nel solo andamento del Pil, che pure rimane un parametro decisivo. Il Bes, che ha emesso i suoi primi vagiti ormai nel 2010, rappresenta il tentativo più avanzato in Italia di colmare questo gap: l’Istat in questo rapporto si analizza i fattori che hanno un impatto diretto sul benessere umano e sull’ambiente (unitamente agli elementi funzionali al miglioramento del benessere della collettività) attraverso 12 domini articolati in ben 130 indicatori.

L’approfondita analisi prodotta dall’Istat si chiama fuori dal chiacchiericcio della cronaca politica, che dibatte (paradossalmente alimentata proprio dalla puntuale reportistica dell’Istituto) su uno 0,1% in più o in meno di Pil. La Conferenza Onu sui cambiamenti climatici, in corso a Parigi, pone l’Italia come il resto della comunità internazionale di fronte all’impellente esigenza di puntare in alto e d cambiare il proprio modello di sviluppo, di promuovere la sostenibilità. Sarebbe però impossibile pensare di tagliare il traguardo senza nemmeno sapere a che punto del percorso ci troviamo; il Bes rappresenta un’utile bussola in questo arduo compito.

Da questo punto di vista risulta particolarmente interessante dare un’occhiata alla componente ambientale individuata dall’Istat come discriminante per il benessere degli italiani. Un contributo che, per quanto riguarda la percezione dei cittadini, è cresciuto nell’ultimo decennio: secondo le rilevazioni Istat, la soddisfazione degli italiani in riferimento alla situazione ambientale (dell’aria, dell’acqua, del rumore, ecc.) della zona in cui vivono è aumentata, e le persone di più di 14 anni che si dichiarano soddisfatte dell’ambiente della propria zona passano dal 67,7% del 2005 al 71,3% del 2014. «Molte differenze ancora connotano le varie aree del Paese e i diversi aspetti ambientali, anche se – osservano dall’Istat – nel corso degli ultimi anni, con l’impulso delle normative e dei vincoli europei, sono stati compiuti passi in avanti nelle politiche di monitoraggio dei sistemi naturali che comunque segnalano un’evoluzione reale».

Aumenta ad esempio la disponibilità di aree verdi urbane a disposizione dei cittadini (in media di 32,2 metri quadrati per abitante), si riduce l’inquinamento dell’aria in diverse città, cresce l’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili (che raggiunge il 37,3% del totale nel 2014), si contraggono le emissioni di gas serra, diminuiscono i rifiuti – sia urbani che speciali – prodotti. Anche l’indice composito Ambiente elaborato dall’Istat il 2008 e il 2012 passa dal valore 100 al valore 104,1 manifestando «un aumento significativo […] attribuibile soprattutto alla riduzione di rifiuti urbani smaltiti in discarica che in alcune regioni ha subito un importante decremento e all’aumento del consumo di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili».

Detto questo, è evidente come il quadro ambientale disegnato dall’Istat risenta in profondità delle cupe tonalità portate dalla crisi economica. L’uso e il consumo di materiali, le emissioni di gas climalteranti e l’energia da fonti rinnovabili – si sottolinea nel rapporto Bes – sono tra gli elementi chiave dello sviluppo sostenibile, ma il miglioramento di molti parametri ambientali negli ultimi anni rappresenta in buona parte un sottoprodotto fortuito dei consumi e degli investimenti persi a causa della crisi.

Si prenda ad esempio l’andamento dell’indice Cmi (Consumo materiale interno, dato dall’estrazione interna più i flussi netti dall’estero), che «rappresenta l’insieme dei materiali che nel corso di ogni anno vengono trasformati in nuovi stock “utili” del sistema socio-economico (edifici, infrastrutture, macchinari, armamenti, beni durevoli, ecc.), in rifiuti (deposti in discarica o in depositi temporanei), in parte solida di reflui (restituita all’ambiente naturale con le acque in esso scaricate) o incorporati in emissioni atmosferiche oppure rilasciati sul suolo». Si tratta di una delle dimensioni nelle quale è possibile riassumere il flusso di materia che – al pari dell’energia – fa muovere la nostra economia.

Ebbene, l’indice Cmi italiano nel 1991 viaggiava attorno ai 900milioni di tonnellate di materiali consumati ogni anno mentre nel 2013 (dove arrivano gli ultimi dati disponibili) non arriva a toccare i 600milioni di tonnellate. Questo ha certo a che vedere con l’efficienza che ha saputo sviluppare la manifattura italiana (in termini di Pil per unità di materia “consumata” la performance italiana è circa 2,3 euro/kg, meglio della media Ue), ma riguarda molto da vicino anche la crisi economica: «Deindustrializzazione, crisi del settore delle costruzioni e mutamento della composizione delle importazioni in favore di prodotti più “a valle” nel ciclo produttivo (e quindi meno pesanti per unità di valore) hanno continuato ad erodere la base materiale dell’economia italiana – scrive l’Istat – diminuendone il potenziale di impatto sull’ambiente naturale nazionale».

Un processo evidentemente subito, non governato, e qui sta la differenza sostanziale tra impoverimento economico e un nuovo modello di sviluppo. Come sempre, è bene dunque fare molta attenzione a non scambiare le cause con le conseguenze: lo sviluppo sostenibile è tema complesso che non ammette semplificazioni, e le brutte sorprese sono sempre dietro l’angolo della propaganda.

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