E’ ufficiale, siamo entrati nel
“secolo del CO-“, ormai il discorso pubblico è inondato da un nuovo linguaggio che inneggia alla COndivisione e alla COllaborazione. Si parla moltissimo anche di COmunità, CO-produzione, CO-progettazione, CO-gestione, CO-abitare, CO-vivere, ecc. (Scopri di più su:
http://www.collaboriamo.org/leta-del-co-cooperazione-e-beni-comuni-per-aprire-nuovi-cantieri-sociali-economici-istituzionali/)
di Christian Iaione (LabGov – LABoratorio per la GOVernance dei beni comuni)
Inizialmente abbiamo pensato che fosse stata la tecnologia e quindi la narrazione è stata dominata dal determinismo tecnologico. Oggi stiamo comprendendo forse che la tecnologia non è tutto. E che ci sono altri fattori determinanti come l’enorme conoscenza acquisita, distribuita, diffusa nella società anche grazie all’enorme investimento pubblico sull’educazione, ricerca, formazione, più la crescente e sempre più diffusa attitudine e inclinazione delle persone a ritrovarsi, stringersi, coalizzarsi, fare quadrato, a mettere insieme le risorse e il tempo per “efficientare” le risorse esistenti sfruttando la capacità e le energie inutilizzate, recuperare qualità e stili di vita, fronteggiare le diverse “crisi” o “transizioni” che il nuovo secolo sta proponendo: ambientale, economica, politica.
Queste nuove “parole d’ordine” hanno due nobili tradizioni alle spalle, quella del mutualismo e della co-operazione, da un lato, e quella della gestione collettiva dei beni comuni (prevalentemente rurali e ambientali), dall’altro. Tutte queste nuove parole d’ordine, infatti, se ci si pensa bene, hanno il “cum” come radice, il “con”, l’”insieme” come principio di design. La co-operazione è stata insieme al mutualismo la primigenia forma di antidoto e correzione alle storture del mercato nella sua versione ultra-competitiva (così come il mutualismo ha sopperito all’assenza prima e alla incompletezza poi dello Stato sociale). Per converso, la gestione collettiva dei beni comuni, soprattutto nelle aree e territori più remoti, è stata l’unica forma per garantire sopravvivenza ai membri di piccole comunità, generare forme di lavoro e occupazione, fornire a tutti i membri della comunità mezzi di sussistenza. Queste due tradizioni si basano sulla medesima tecnologia sociale, la condivisione e la collaborazione tra i membri della società. Oggi questa tecnologia sociale sembra sfondare i confini della cooperazione in campo economico e quelli delle piccole comunità rurali e agricole.
Oggi sembra che la cooperazione possa diventare insomma un paradigma dominante. “Paradeigma” (para + deiknymi) significa ciò che serve a far vedere, a indicare, a mostrare. Paradigma può essere interpretato dunque in un duplice senso: per un verso come ciò che si pone accanto a qualche altra cosa come termine di confronto, di paragone (exemplar), per altro verso può designare qualsiasi argomento o racconto che si utilizza o si inserisce nel discorso al fine di rendere più chiaro e comprensibile quel che si va esponendo (exemplum). La cooperazione può essere, dunque, un segnale per indicare alla società e all’economia una strada, una rotta, un sentiero possibile su cui incamminarsi, una direzione, un orizzonte, o frontiera verso cui muovere i nostri passi nei decenni a venire allontanandoci dai paradigmi del passato. E può fornire anche strumenti esemplari per percorrere questo sentiero e accompagnarci verso mete nuove. Condivisione e collaborazione sembrano sentiero da percorrere e meta da raggiungere. Entrambe sono fortemente debitrici alla cooperazione.
Ora, il rischio è che dentro queste formule si annidino nuovi totem ideologici o, peggio, vengano utilizzate come paraventi che intendono solo porre in otri vecchi vino vecchio e di scarsa qualità per peggiorare la qualità e le condizioni del lavoro delle nuove generazioni, accentuare le disuguaglianze e i conflitti sociali, aggirare le sacrosante regole del mercato competitivo o infine giustificare scelte politiche dettate da errori commessi nel passato dalle classi dirigenti che si sono avvicendate nella gestione delle risorse della collettività. Un fatto è certo, questa sembra essere l’epoca in cui il terzo pilastro della società, la comunità, riemerge in maniera dirompente. Accanto al pubblico e al privato, emerge il civico, la comunità, le persone. Ma bisogna andarci cauti e sperimentare.
Altro rischio che si può correre è quello di uscire dalle dicotomie e separazioni novecentesche (pubblico-privato, Stato-mercato, profit-non profit, politica-amministrazione, politica-società, vita pubblica-vita privata) per entrare in nuove dicotomie: pubblico-cittadini, privato-comunità o, ancor peggio, lanciando campagne culturali e comunicative volte a far emergere una nuova figura egemonica la cittadinanza attiva, la comunità, la collettività, in grado di fare da sola oppure dettando agli altri attori una lezione e l’agenda. I cittadini da soli e neppure in alleanza con qualche privato virtuoso o qualche amministrazione innovativa possono essere la sola risposta alle sfide e alla complessità che il nuovo secolo propone. Non è così che ci salveremo. L’età del co- è un età circolare. Occorre perciò investire sulla costruzione di “circuiti sociali, economici e istituzionali”. Il partenariato pubblico-privato-comunità e la governance collaborativa e policentrica che mette insieme con forme e strumenti diverse, sperimentali, iterative e adattive cinque tipologie di attori (pubblico-privato-civico-cognitivo-sociale) possono essere le metodologie utili per abilitare nuove forme di aggregazione e coesione sociale, rendere le nostre città idonee ad accogliere e valorizzare nuovi popoli urbani, generare nuove imprese, costruire nuove istituzioni.
Questi circuiti devono ruotare attorno al principio di “apertura” e “collaborazione” o “cooperazione” (
“pooling”, più che di condivisione o sharing). Mettere risorse in comune non basta. Bisogna aprirle all’uso di altri soggetti, per consentire ai diversi attori sociali, economici e istituzionali di generare nuova ricchezza facendo leva su una ricchezza enorme, l’ultima che ci rimane forse. Si tratta del patrimonio comune di risorse di cui la collettività dispone e che per dimensioni, caratteristiche, condizioni contingenti è ad accesso aperto e quindi a rischio congestione/depauperamento/distruzione oppure che dovrebbe essere messo a disposizione di tutti, della collettività perché oggi inutilizzato o utilizzato in maniera inefficiente al fine di generare nuovi beni comuni, nuove risorse, nuove possibilità. Elinor Ostrom chiamava queste risorse le common-pool-resources rispetto alle quali basta la risposta della condizione. Le seconde sono “common-pool assets”, beni sui quali una comunità collaborando può generare nuovo capitale sociale, nuova occupazione, miglioramento della qualità urbana.
Che cosa possono fare le cooperative e cosa possono imparare dai beni comuni? Sicuramente non come si coopera, ma l’apertura si. Le cooperative possono fare tanto in questo senso: aprire nuove strade, indicare nuove direzioni alla propria comunità, ai milioni di soci per farne la locomotiva del cambiamento, essere l’innesco di questo processo culturale che induce le persone e le istituzioni a rendere disponibili proprie risorse e a metterle in comune per condividerle e collaborare; aprirsi a nuove platee e comunità offrendo il proprio know-how cooperativo e mettendolo al servizio di chi intende fare pooling e raggiungere le persone che le cooperative ogni giorno servono, assistono, accompagnano, trasportano, alimentano, intrattengono, ecc. per convincerle a diventare cooperative nella vita di tutti i giorni; e aprire la propria governance a nuovi attori diventando multistakeholders e quindi esse stesse un bene comune, istituzioni sociali che abilitano l’azione collettiva e collaborativa. Un progetto che va in questa direzione e cerca di aggiornare la visione co-operativa e offrire visioni cooperative alle sfide della post-modernità è
ViCo, un progetto, un luogo per pensare cooperativo elevando la cooperazione al territorio e soprattutto per leggere e interpretare i cambiamenti in atto.
Non è una rivoluzione, è una evoluzione. Si costruisce innovazione innestandola sulla tradizione, si valorizza un’identità aggiornandola e proiettandola nel futuro. Bisogna dimostrare che questo può essere il paradigma del XXI secolo. E’ necessario un grande investimento culturale e una infrastruttura capillare che convinca le persone a modificare il proprio comportamento, non è facile ma è realizzabile. Le cooperative e i cooperatori possono essere questa infrastruttura. Qualunque grande concetto teorico per diventare paradigma deve dimostrare la propria realizzabilità. E per farlo occorre dunque aprire nelle città e nei territori cantieri di cooperazione aperta urbana e territoriale per la cura e rigenerazione dei beni comuni, per il ripensamento dei servizi e delle imprese come imprese e servizi di interesse comune o generale. Uno di questi cantieri, il principale è Bologna con
CO-Bologna, frutto di un patto di collaborazione aperto tra il
Comune di Bologna e la Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna per realizzare il programma
“Bologna città collaborativa”. E tutto il mondo lo osserva, lo studia, cerca di capire come contribuire a migliorarlo e cosa imparare per provare ad incamminarsi sullo stesso sentiero di transizione ed evoluzione. A Bologna, infatti, il 6-7 novembre si tiene all’opificio Golinelli, sede della
Fondazione Golinelli, la prima conferenza mondiale sui beni comuni urbani organizzata, sotto l’egida dell’
associazione internazionale degli studiosi dei beni comuni fondata dal premio Nobel Elinor Ostrom, da
LabGov (una partnership scientifica tra
LUISS Guido Carli ICEDD e
Fordham University Urban Law Center), con il supporto di
Legacoop Bologna,
Fondazione Unipolis e
PwC.