«Il clima è la mia ultima grande sfida. Poi torno alle Hawaii», ha dichiarato Obama alla rivista Rolling Stone qualche giorno fa. Il presidente degli Stati Uniti può muovere leve importanti in modo che la sfida sia vinta. Può battere i pugni sul tavolo alla conferenza sul clima di Parigi che si terrà a fine novembre e, in effetti, pare che sia pronto a farlo. E noi? Cosa possiamo fare per evitare che la terra si surriscaldi sopra i fatidici 2 °C con conseguenze incalcolabili sull’ambiente, la salute e la vita stessa di uomini, animali e piante? (Scopri di più su:
http://goo.gl/DZ2bcC)
di Mauro Meggiolaro
Molto più di quanto si pensi, in realtà: possiamo ridurre al minimo la nostra produzione personale e famigliare di Co2 usando il meno possibile la macchina e l’aereo, mangiando meno (o per nulla) carne, installando un pannello termico sul tetto per farci la doccia o comprando prodotti locali. Ma come non ci stanchiamo di ripetere su questo blog, abbiamo a disposizione anche un altro, importantissimo strumento: il nostro portafoglio.
Non è che per caso i fondi di investimento che ci ha rifilato la nostra banca di fiducia hanno in pancia titoli di imprese che estraggono e vendono carbone e petrolio? Se è così possiamo fare anche cento chilometri al giorno in bici e cibarci solo di
radici di yacon che coltiviamo in giardino ma, alla fine, con i nostri soldi contribuiremo a produrre molto più Co2 di quanto non riusciremo a risparmiarne con le nostre scelte quotidiane di consumo. Che fare allora? A questa domanda hanno cominciato a rispondere in modo deciso centinaia di studenti statunitensi nel 2012, chiedendo alle proprie università di disinvestire la liquidità (generata da rette, contributi e sponsorizzazioni) da società che estraggono e vendono combustibili fossili. È nata la campagna
FossilFree che oggi raccoglie più di 400 investitori istituzionali e 2.000 individui in tutto il mondo, che i sono impegnati ad azzerare o ridurre i propri investimenti nei combustibili fossili per un totale di oltre 2.600 miliardi di dollari.
Nelle ultime settimane la campagna è arrivata anche in Italia e sarà lanciata ufficialmente poco prima della conferenza di Parigi. Si chiama
#DivestItaly e tra gli aderenti, oltre a Legambiente, È Nostra, Fima, Viração e altri c’è anche la nostra
Fondazione Culturale Responsabilità Etica, che ogni anno, con l’azionariato critico, mette alla prova su temi ambientali e sociali l’impresa petrolifera nazionale Eni e il gigante dell’elettricità Enel (che in Italia produce ancora buona parte dell’energia bruciando carbone).
Vendere i titoli di imprese che hanno un alto impatto sul surriscaldamento della terra fa bene anche ai rendimenti. Lo ha dimostrato
un rapporto dell’ONG britannica Platform London pubblicato a fine settembre. In base alla ricerca di Platform, come ha riportato il
Financial Times l’11 ottobre, negli ultimi 18 mesi i fondi pensione inglesi avrebbero perso quasi un miliardo di per avere puntato su titoli di imprese che estraggono carbone. I titoli sono crollati perché il carbone, vista l’abbondanza di gas a basso prezzo (e a molto più basso impatto sull’ambiente), non lo compra più nessuno. Il Greater Manchester Pension Fund (fondo pensione dei dipendenti pubblici della città metropolitana di Manchester) ha perso da solo 224 milioni di dollari.
Se poi guardiamo ai grandi produttori di petrolio le prospettive non sono certo migliori: in base ai dati dell’indice Dow Jones Exploration & Production, le compagnie che estraggono petrolio hanno perso mediamente il 32,77% in borsa dal giugno del 2014, quando è crollato il prezzo del greggio (dato calcolato dal 23 giugno 2014, quando l’indice ha raggiunto il picco dell’anno, al 5 novembre 2015). Che senso ha, quindi, mettere i soldi in queste società? Pochi giorni fa se n’è accorta addirittura
BlackRock, la più grande compagnia di investimento del mondo con 4.300 miliardi di patrimonio da gestire. Nello studio
“The price of climate change” (Il prezzo dei cambiamenti climatici) ha analizzato tutti i possibili impatti che il surriscaldamento del pianeta potrebbe avere sui portafogli di investimento. Non tutte le imprese petrolifere perderanno – scrive BlackRock – in effetti gli operatori “low-cost” potrebbero salvarsi nel breve periodo. Ma chi ha puntato su progetti di estrazione ad alto costo e ad alto rischio per l’ambiente (sabbie bituminose, acque profonde e ultra-profonde) rischia grosso, sia per il basso prezzo del petrolio (che non accenna a salire), sia per l’approvazione di nuove leggi a difesa del clima che potrebbero frenare gli investimenti, lasciando milioni di barili di olio sottoterra o “stranded” (spiaggiati), come dicono gli esperti che parlano, appunto, di “stranded assets”(risorse spiaggiate o bloccate).
Nei prossimi mesi con la campagna #DivestItaly cercheremo di far capire agli investitori istituzionali italiani (ordini religiosi, fondi pensione, ecc.) che puntare su titoli di imprese che contribuiscono in modo rilevante a surriscaldare il pianeta, non è solo un pessimo affare per l’ambiente ma anche per i rendimenti. I promotori della campagna a livello internazionale sono convinti che il disinvestimento dai combustibili fossili avrà un successo almeno pari al movimento che portò migliaia di cittadini e istituzioni, dagli anni settanta fino al 1994, a vendere i titoli di imprese conniventi con il regime di apartheid in Sudafrica. C’è solo da augurarselo, anche perché il clima è la nostra ultima grande sfida come consumatori e investitori. Poi magari invece che alle Hawaii, come farà Obama, torneremo a Vigodarzere o a San Felice sul Panaro. L’importante è continuare, senza sosta, a fare la nostra parte, praticando uno degli impegni più importanti: sottrarre i nostri soldi da un modello economico obsoleto e spostarli verso obiettivi di crescita sostenibile. Ne guadagneremo noi, chi verrà dopo di noi e, a quanto pare, anche il nostro estratto conto.