Dal 2000 gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio hanno guidato la comunità internazionale nella lotta contro la povertà. Approssimandoci alla loro scadenza (2015), il dibattito sull'assetto post-2015 sembra avere rubato la scena a quella che fino ad oggi è stata l’agenda globale di sviluppo. Ma quali obiettivi abbiamo raggiunto e quali no? E perché? Prima di pensare a quello che sarà, è utile riflettere su che cosa ci insegna l'esperienza che abbiamo fatto. (Scopri di più su: http://www.aggiornamentisociali.it/easyne2/LYT.aspx?Code=AGSO&IDLYT=769&ST=SQL&SQL=ID_Documento%3D13045)

Ogni inizio di millennio racchiude l’emozione di qualcosa di grande che inizia e la voglia di compiere azioni che resteranno nella storia. L’inizio del nostro portò alla formulazione di una delle promesse più grandi della storia dell’ONU: la Dichiarazione del Millennio (ONU 2000). Nove pagine di impegni assunti dai Governi per gli anni a venire. Per evitare che il documento cadesse nell’oblio e restasse incompiuto (Vandemoortele 2011), venne tradotto in un agenda di sviluppo conosciuta come Obiettivi di sviluppo del Millennio (OSM), a oggi ancora validi. Otto obiettivi, associati a ventuno target (obiettivi operativi), che danno espressione concreta e misurabile ai punti fondamentali della Dichiarazione e che la comunità internazionale avrebbe dovuto raggiungere entro la fine del 2015 grazie all’aumento del flusso degli aiuti allo sviluppo, al trasferimento di tecnologia dai Paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo e al Millennium Project (Sachs e McArthur 2005), un piano di sostegno istituzionale per i Paesi più fragili.

Al momento del lancio degli OSM tutti i Paesi aderirono all’iniziativa impegnandosi a: 1) eliminare la povertà estrema e la fame; 2) assicurare l’istruzione primaria universale; 3) promuovere l’uguaglianza tra i sessi e l’autonomia delle donne; 4) diminuire la mortalità infantile; 5) migliorare la salute materna; 6) combattere l’HIV/AIDS, la malaria e altre malattie; 7) assicurare la sostenibilità ambientale; 8) sviluppare un partenariato globale per lo sviluppo.


1. Un bilancio degli OSM

A che punto siamo arrivati? Dove ci hanno portato gli OSM? Anche se, a pochi mesi dalla loro scadenza, il mondo sembra concentrato nella definizione di ciò che sarà dal 2015 in poi, è invece utile fermarsi e domandarselo seriamente, nel tentativo di ottenere una valutazione chiara e onesta di quello che gli OSM sono e non sono riusciti a raggiungere. A maggior ragione dopo che gli ultimi dati rilasciati (UNSTATS 2015; ONU 2015) hanno ulteriormente confermato che gli OSM non saranno raggiunti globalmente da tutti i Paesi.

Nonostante le difficoltà nello stabilire esattamente il grado di raggiungimento degli OSM, è evidente che dal 2000 a oggi ci sono stati progressi e gli OSM hanno dimostrato di saper essere anche qualche cosa di più rispetto a un «mucchio di belle parole» (Saith 2006). L’ultima tabella rilasciata dall’UNSTAT (2015) offre una panoramica globale sul lavoro svolto e che resterebbe da svolgere a metà del 2015: è forse un po’ riduttiva, sia per i pochi indicatori riportati, sia per la descrizione poco approfondita delle situazioni più specifiche. Le si può però affiancare l’ultimo rapporto dell’ONU sugli OSM (ONU 2015), strumento informativo un po’ più completo. Rimandando al documento per una lettura più approfondita, ci limitiamo qui al commento dei dati a nostro parere più significativi e rappresentativi di quello che gli OSM sono stati.

Occorre però un’ultima premessa: non è difficile notare la maggiore attenzione che i grafici riservano ai Paesi cosiddetti in via di sviluppo. La scelta non è casuale: nonostante la validità universale degli OSM, infatti, non per tutte le nazioni gli obiettivi hanno avuto lo stesso peso. Mentre per i Paesi più sviluppati questi hanno costituito principalmente delle linee guida per l’indirizzo e la gestione degli aiuti e una misura di accompagnamento alle politiche di riduzione del debito estero (Fukuda-Parr 2012), è stato nelle regioni in via di sviluppo che gli OSM hanno influenzato davvero le politiche pubbliche (Manning 2009). Anche tra queste però ci sono state “preferenze”: le regioni meno sviluppate, specialmente l’Africa subsahariana e alcuni Stati asiatici, hanno costituito, almeno inizialmente, poli di attrazione più forti di risorse e tecnologie estere (Fukuda-Parr 2012). Questo non sorprende, considerato che proprio lì si concentravano i tassi più alti di povertà 1. Fino a che punto questi investimenti sono stati utili? Quali progressi hanno permesso?


a) Gli obiettivi raggiunti

Sicuramente è incoraggiante sapere che nel 2010, con ben cinque anni di anticipo, il target 1.A, forse il principale di tutta l’agenda, è stato raggiunto: la percentuale di persone che vive sotto la linea di povertà (1,25 dollari al giorno) è stata dimezzata. Gli ultimi dati della Banca mondiale (aggiornati al 2011) stimano che poco più di un miliardo di persone viva oggi con meno di 1,25 dollari al giorno, dato che, comparato con gli 1,91 miliardi del 1990, segna sicuramente un progresso significativo.
Dello stesso anno è anche il raggiungimento del target sull’accesso a fonti di acqua pulita (parte del target 7.C).
Secondo i dati di ONU 2015, con un tasso di mortalità ridotto del 50% e 98 Paesi ad alto rischio che hanno diminuito l’incidenza della malaria, anche il target 6.C è stato raggiunto nel 2012.
Anche le condizioni di vita nelle baraccopoli sono fortemente migliorate tra il 2000 e il 2014 (target 7.D). Nonostante la sua vaghezza del target («Ottenere un miglioramento significativo della vita di almeno 100 milioni di abitanti delle baraccopoli entro l’anno 2020»), interpretabile in vari modi, a detta dell’ONU esso è stato ampiamente raggiunto grazie ai 320 milioni di persone in più che hanno ottenuto accesso all’acqua potabile, ai servizi igienici, o a case più solide o meno affollate.

b) i casi di miglioramento parziale e insufficiente

Se questi sono gli unici target realmente raggiunti a livello globale, si sono osservati miglioramenti anche in altri campi, per esempio quello della riduzione dei decessi per tubercolosi (target 6.C, che secondo ONU 2015 dovrebbe essere raggiunto entro la fine dell’anno da tutti i continenti). L’Organizzazione mondiale della sanità stima che dal 1990 al 2013 le morti per tubercolosi si siano ridotte del 45%, anche grazie al lancio della Stop TB Partnership. Lanciata nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità, Stop TB Partnership è una iniziativa globale che include organizzazioni governative e non con lo scopo di assicurare assistenza medica a tutti coloro che soffrono di tubercolosi, nell’intento di liberare il mondo da questa malattia.

Non sarà invece raggiunto, ma ha visto progressi importanti, l’obiettivo di riduzione della mortalità infantile (target 4.A), grazie all’aumento di assistenza a madri e neonati nelle prime ore dopo il parto e all’incremento degli investimenti per i vaccini contro il morbillo, importante causa di decesso tra i più piccoli (ONU 2015). L’ONU stima che oggi nel mondo si salvino ogni giorno 16mila bambini in più rispetto al 1990.
Anche il numero di persone con accesso a terapia antiretrovirale contro l’AIDS (target 6.B) è aumentato molto negli ultimi anni (1,9 milioni di persone in più solo nel 2013, secondo ONU 2015), ma per raggiungere in tempo il target stabilito dovrebbero essere garantiti investimenti e impegno politico stabile. Purtroppo però il contrasto a malattie complesse come l’HIV/AIDS non si limita a lla questione dell’accesso alle cure, ma si intreccia con fattori socioculturali ed educativi che frenano, piuttosto che facilitare, il percorso verso l’obiettivo. La lotta all’HIV, per esempio, è rallentata dall’ancora relativamente scarsa conoscenza e consapevolezza dei comportamenti a rischio e dell’uso delle precauzioni necessarie.
Lo stesso discorso vale per la mortalità materna (target 5.A) che, nonostante l’andamento positivo, rimane un problema significativo, ugualmente segnato da fattori culturali, quali la mancanza di pianificazione familiare o di accesso a cure per la salute riproduttiva, che ne rallentano la diminuzione.
Per quanto riguarda la parità di genere (obiettivo 3), mentre si sta raggiungendo l’uguaglianza tra maschi e femmine nel tasso di iscrizione alla scuola primaria (progresso legato anche all’obiettivo 2 sull’universalità dell’istruzione primaria), la disparità persiste dal secondo grado di istruzione in poi, propagandosi anche al settore occupazionale, nel quale, nonostante miglioramenti rilevanti, le donne continuano a soffrire discriminazioni.

c) I casi di insucceso

In mezzo a questi progressi, si nascondono però percentuali ancora alte di persone che soffrono la fame (ONU 2015 calcola che oggi circa una persona su nove sia denutrita) o sono prive di accesso a servizi igienici adeguati (ancora 2,4 miliardi di persone, ONU 2015), l’aumento di rifugiati e sfollati, volumi di aiuti allo sviluppo ancora molto lontani dal target dello 0,7% del PIL dei Paesi sviluppati, ecc.
Tra tutti però richiama l’attenzione l’obiettivo 7 sulla sostenibilità ambientale, che potrebbe forse essere definito il “grande perdente” degli OSM. Rimasto quasi al fondo della lista, il suo livello di insuccesso è allarmante. Gli stessi dati ONU (2015) parlano di emissioni crescenti di anidride carbonica, aumento della deforestazione, eccessivo sfruttamento di risorse scarse e preoccupante perdita di biodiversità (si estinguono tra 150 e 200 specie al giorno, UNEP 2010).

2. Una valutazione del processo degli OSM

Ad eccezione dell’obiettivo 7, possiamo dichiararci soddisfatti degli OSM? Se lo sviluppo si limitasse a una questione di numeri, forse potremmo rispondere di sì, aggiungendo che una proroga nella scadenza degli OSM e un maggiore impegno per l’aumento delle risorse a disposizione potrebbe essere la soluzione ottimale per il loro raggiungimento, così da permettere al mondo di ritenersi soddisfatto e sviluppato.

Questo almeno in teoria. In pratica ci sono forti dubbi sul fatto che andrebbe tutto come sperato, perché lo sviluppo non è solo una questione di numeri da aumentare o ridurre. Gli OSM stessi non sono stati solo una questione di numeri. L’agenda ONU è stata anche, e prima di tutto, un modo di pensare, di leggere il mondo, di educare, di fare politica (Manning 2009). Gli OSM sono stati la base di strategie nazionali e internazionali dimostratesi buone negli intenti, ma limitate nei metodi e nei mezzi in cui si sono concretizzate (Fukuda-Parr e Yamin 2013). Forse persino immaginando di allungarne la durata per altri quindici anni non arriveremmo comunque a sentirci soddisfatti dei risultati raggiunti.

Ma procediamo con ordine: prima di tutto gli OSM sono stati un modo di pensare e di leggere il mondo. Come tutti gli strumenti di lavoro, anch’essi derivano da una visione della realtà e da una teoria su come sia possibile cambiarla (Hulme 2007). Dietro agli OSM si celano molte idee e analisi accomunate da una visione di fondo: la sola crescita economica non è più sufficiente a definire lo sviluppo (Sen 2001; ul Haq 2003). Da questo punto di vista gli OSM sono stati molto innovativi: hanno riconosciuto espressamente che il problema della povertà richiede di agire su più fronti, che vanno ben oltre il reddito, toccando l’educazione, la parità di genere, l’accesso alle risorse, ecc. (OPHI 2013). L’ampliamento del dibattito sulla povertà è un successo indiscutibile degli OSM.

A questo si lega il fatto che gli OSM sono stati in grado di concretizzare un’analisi complessa, come quella della multidimensionalità della povertà, in un’agenda semplice, chiara, breve, lineare, facilmente comunicabile e comprensibile anche dal grande pubblico. È anche a questo che che si deve il grande successo e la forte legittimazione politica e sociale che gli OSM hanno riscosso sin da subito (Manning 2009). Per questo motivo sono stati anche un importante strumento di sensibilizzazione ed educazione allo sviluppo. Da un certo punto di vista, la semplicità degli OSM è stata disarmante e ha rivoluzionato l’impegno sociale, almeno nel mondo occidentale, trasformando la lotta alla povertà in un imperativo etico e morale globale (Fukuda-Parr e Hulme 2009; Manning 2009).

Per tutti coloro che di sviluppo si occupano a livello professionale, gli OSM hanno avuto un ruolo ancora più importante: dal 2001 hanno rappresentato una sorta di bussola per una navigazione più sicura nel mare caotico e sempre più affollato dello sviluppo. Le otto aree di intervento sono diventate priorità globali che da un lato hanno facilitato il compito di stabilire priorità tra i diversi bisogni, dall’altro hanno permesso un maggior coordinamento del lavoro.


b) ... e i punti di debolezza

Proprio su questo aspetto iniziano a intravedersi i primi limiti di questa agenda. Quanto queste priorità si sono imposte, più che poste? Apparentemente molto. Presentandosi come uno strumento negoziato e concordato a livello internazionale, gli OSM sono diventati una teoria dominante dello sviluppo (Fukuda-Parr e Yamin 2013), con la presunzione di saper distinguere tra sviluppo buono e sviluppo cattivo, tra pratiche buone e cattive, tra performance buone e cattive (Sumner e Tiwari 2010). Pensieri e visioni divergenti sono stati arginati e molti si sono ritrovati a dover rivedere i propri approcci specifici per rimodellarli attorno al quadro di riferimento universale (Ramalingam 2013).

Ma quanto è vincente l’universalità nello sviluppo? Non molto, per due ragioni. La prima è che per quanto riguarda lo sviluppo non esistono soluzioni e rimedi universali. Così come non si può pretendere di costruire una stessa identica casa su due terreni morfologicamente diversi, negli interventi di sviluppo non si possono ignorare le specificità di ogni contesto sociale e umano, poiché costituiscono sia la base sia un fattore chiave del cambiamento. Eppure è proprio questo che hanno fatto gli OSM: trasformare un’idea di sviluppo con determinate priorità in una teoria globalmente valida, mettendo in discussione le peculiarità e le necessità specifiche di ogni comunità. La loro universalità manca di flessibilità, di adattabilità, di attenzione al contesto specifico. Molti Governi locali si sono allontanati dagli OSM, giudicandoli troppo occidentali e quindi poco significativi nel loro contesto, o troppo ambiziosi per le reali potenzialità locali (Easterly 2009; Kenny e Sumner 2011). Fino a che punto possiamo allora meravigliarci che questa impostazione non abbia funzionato così come sperato?

La seconda ragione per cui l’universalità diventa problematica nello sviluppo è legata al fatto che per favorire la formazione di un consenso comune, durante i negoziati si tende ad abbassare il livello di ambizione degli obiettivi e a semplificare i problemi, generalizzando per poter essere rappresentativi di tutti i contesti (Fukuda-Parr 2013). Quando però si negozia su fenomeni come la povertà, di quanto si può abbassare l’ambizione? E soprattutto, è possibile semplificare? Possiamo davvero ridurre il problema della povertà a una linea? O accontentarci di dimezzare la percentuale di persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno, senza chiederci che cosa ne è di coloro che continuano a disporre di meno, o di coloro che si mantengono in equilibrio appena sopra il limite?

La globalità degli obiettivi, inoltre, tende a distorcere la nostra percezione del particolare: ad esempio, nel celebrare i successi raggiunti in materia di povertà estrema e accesso all’acqua potabile, non siamo spinti a considerare il fatto che questi dipendono soprattutto dai miglioramenti avvenuti in Cina e India, i due Paesi con la popolazione di gran lunga più numerosa e dunque con un peso molto elevato sulla media mondiale. Invece, mentre alcune regioni migliorano, altre restano “concentrati di povertà” dove persistono problemi gravi: l’Africa subsahariana ne è un esempio chiarissimo (ONU 2015). Il divario tra ricchi e poveri sta oggi crescendo velocemente, sia tra le diverse regioni del globo, sia all’interno di ciascuna di esse (OECD 2011). Ma di questo gli OSM non parlano, né incoraggiano a farlo. La disuguaglianza è uno dei tanti temi fondamentali rimasti fuori dalla lista delle priorità.

Inoltre, il bisogno di quantificare i risultati ottenuti e di monitorare l’andamento verso i target ha spinto all’attuazione di politiche più attente all’impatto numerico sugli indicatori che al tipo di cambiamento generato (Fukuda-Parr 2012). L’ossessione dell’aumento della media e quella di restare sempre e comunque on track 2, hanno spinto i Governi sia a politiche contraddittorie, quali per esempio la demolizione arbitraria di bidonville finalizzata al raggiungimento del target sulle condizioni di vita nelle baraccopoli (UN Habitat 2015), sia a indirizzare le risorse sempre più verso quelle aree, soprattutto urbane, che in partenza presentano condizioni favorevoli al raggiungimento degli obiettivi. Questo perà mina la legittimità e l’inclusività del processo di sviluppo promosso.

Più in generale, si può affermare che a essere messa in discussione è la qualità dello sviluppo promosso, e non solo sul versante dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Ad esempio, fino a che punto possiamo rallegrarci che molte più persone hanno accesso all’acqua, quando l’ONU stessa afferma che, nonostante il risultato, molte delle riserve idriche restano ancora microbiologicamente contaminate (ONU 2014)? Verrebbe piuttosto da chiedersi se nello sviluppo quantità e qualità possano davvero restare due concetti alternativi l’uno all’altro e, se sì, dove si posizioni il limite di sviluppo oltre il quale anche la qualità inizia ad assumere valore.

Un ragionamento analogo vale per la sostenibilità. Perché gli OSM non sono stati in grado di difendere gli ecosistemi così come sperato? Forse perché mancano completamente di riferimenti ai mezzi con cui raggiungere gli obiettivi. Questa mancanza, non solo ha dato adito a politiche discutibili, come già osservato, ma ha generato un ulteriore effetto perverso: piuttosto che incentivare l’ideazione di politiche alternative, attente anche alla sostenibilità, gli OSM hanno rilegittimato la fede in vecchie politiche ancora legate all’idea di sviluppo come crescita economica, nelle quali l’attuale modello produttivo e di consumo è rimasto imperante, a scapito della necessità di proteggere il pianeta e le risorse a disposizione, anche come strategia di lotta alla povertà (Killen, Khan, Poverty Alliance e SDPI 2004).

Un altro motivo del grave insuccesso è la settorialità con cui gli OSM affrontano il tema dello sviluppo: anziché farsi forza delle interrelazioni tra un settore e l’altro, il loro impianto suddivide il processo di cambiamento in otto sottoprocessi che sembra considerare come paralleli piuttosto che come interconnessi. Ma lo sviluppo non è un puzzle composto da pezzettini diversi che insieme compongono un’immagine, bensì un quadro nel quale i colori si mischiano e si confondono, senza interruzioni nette. Non è possibile pensare di attuare politiche incentrate su un solo settore senza tenere conto delle ricadute positive o negative in altri campi. In questo senso, non si può sperare di raggiungere la sostenibilità ambientale se le politiche per la creazione di un partenariato globale per lo sviluppo (obiettivo 8) sostengono l’aumento della produttività interna dei Paesi in via di sviluppo, senza preoccuparsi che questa avvenga in modo ecologicamente adeguato (per esempio non deforestando per ottenere terre coltivabili). Lo stesso vale anche per gli altri obiettivi: forse si sarebbe potuto raggiungere un risultato migliore in termini di mortalità infantile (obiettivo 4) se, contemporaneamente, si fosse lavorato di più sulla salute materna (obiettivo 5). I miglioramenti in questo campo, che pure ci sono stati, sono stati limitati rispetto al necessario, soprattutto per quanto riguarda l’accesso a un’adeguata assistenza sanitaria durante la gravidanza e la diminuzione di maternità premature, tra i 15 e i 19 anni.

Tutto questo ci conduce a considerare l’importanza della dimensione culturale all’interno del processo di cambiamento. Guardando all’agenda degli OSM, potrebbe sembrare che basti aumentare le risorse e gli investimenti destinate a campi specifici per poter raggiungere il livello di sviluppo desiderato (Kenny e Sumner 2011). I fatti però dimostrano chiaramente che non è così. Prendiamo, per esempio, il caso dell’obiettivo 3 sull’uguaglianza di genere e l’autonomia delle donne. Non sarà raggiunto entro il 2015 e non solo a causa di politiche inefficienti o insufficienti, ma anche per questioni culturali e di divisione tradizionale di compiti e poteri: le donne accedono più facilmente all’istruzione primaria, ma molto meno a quella secondaria e terziaria, sia per mancanza di risorse, sia per cultura e valori che vedono la donna impegnata all’interno della famiglia piuttosto che nello studio e nella carriera. Come ottenere allora parità senza promuovere il cambio di sistemi valoriali di riferimento? La domanda non trova risposta negli OSM, forse perché la volontà di creare uno strumento semplice, ne ha in realtà generato uno semplicistico e molto riduttivo (Ramalingam 2013). Non si può sperare di raggiungere un obiettivo senza agire sulle cause profonde che influenzano le condizioni in cui esso può essere perseguito. Ma questo richiede strumenti di analisi molto più sofisticati di quello che gli OSM sono stati in grado di offrire.

Sviluppo e semplicità non possono essere considerati sinonimi: il cambiamento sociale non è un processo lineare e meccanico. “Più soldi” non è la sola ricetta per lo sviluppo. O forse sì, ma allora di che tipo di sviluppo si tratta? Uno sviluppo inclusivo, capace di creare benessere duraturo e culturalmente adeguato al contesto sociale in si inserisce, oppure uno sviluppo calato dall’alto, la cui sostenibilità temporale e sociale dipendono dalla continuità dei finanziamenti dall’alto o dall’esterno? Visto l’andamento irregolare degli aiuti allo sviluppo, non si può pensare di incoraggiare un modello nel quale i piani di sviluppo nazionale dipendono da risorse esterne, a maggior ragione oggi, dopo una crisi economica che ha ridotto drasticamente le donazioni e uno spostamento di destinazione dei fondi dai Paesi a basso reddito a quelli a medio reddito, nuova collocazione geografica dei poveri (Sumner 2012).


3. Uno sguardo di sintesi

Che cosa ci lasciano allora davvero gli OSM? Dove ci hanno portato? Dal punto di vista teorico l’agenda è stata fondamentale: per quanto limitati nel numero di aspetti toccati, sono riusciti a diffondere chiaramente ed efficacemente l’idea che la povertà non è solo una questione di reddito e che è fondamentale andare ad agire anche sulle dinamiche sociali. Non è stato “sbagliato” assumere gli OSM come linea guida per orientarsi, almeno inizialmente, nel lavoro da svolgere.

Quello che di “sbagliato” c’è stato è piuttosto l’imporsi dell’agenda come teoria unica e dominante, valida a livello globale, senza rendersi conto di quanto fosse in realtà slegata dall’ampia varietà delle realtà locali, dai loro bisogni e dalle loro visioni del mondo (Pollard, Sumner, Polato-Lopes e de Mauroy 2011). È stata la volontà di ridurre lo sviluppo a un processo numerico e di medie da alzare o abbassare (Fukuda-Parr e Yamin 2013). È stata la presunzione di poter tradurre processi complessi in problemi lineari a poche variabili, tutte controllabili (Ramalingam 2013).

L’agenda è riuscita così a soddisfare i bisogni di qualcuno, senza però rimettere in discussione le cause che sottostanno ai problemi con cui milioni di persone si scontrano ogni giorno. Se non si può negare che tutti ci sentiamo più rassicurati sapendo che oggi il numero di persone che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno è calato o che più bambini riescono a sopravvivere dopo i primi cinque anni di vita, preoccupa vedere che, alla fine, non c’è stato un vero cambiamento nelle dinamiche che costringono ancora troppe persone a vivere in povertà assoluta, o troppi bambini a non superare i cinque anni. Gli OSM non hanno rimesso in discussione gli squilibri esistenti e le inefficienze del sistema degli aiuti o delle politiche assistenzialistiche.

Dal 2000 a oggi ci sono stati diversi progressi, ma anche significativi regressi, che hanno aumentato l’incertezza e la vulnerabilità delle persone. Di certo non è colpa dell’agenda degli OSM se la situazione mondiale è andata complicandosi, ma è altrettanto vero che la sua incapacità di cambiare l’ordine delle cose non ha aiutato a prevenire l’emergere di problemi che continuano a pesare come macigni sulle spalle dell’ONU, dei Governi e delle società.

Se dagli OSM possiamo allora trarre alcune lezioni per il futuro la prima è sicuramente, e ancora, che non esistono soluzioni e priorità valide per tutti nello stesso ordine. Che un processo di cambiamento vero deve sempre affondare le sue radici dal basso, nel contesto sociale, per poter generare benessere. Che semplificare non è mai un’opzione quando si tratta di sviluppo. Che gli obiettivi, come una sorta di stella polare, possono orientarci e guidarci, ricordandoci il motivo per cui cerchiamo il cambiamento, ma non possono diventare le uniche ragioni per cui un Paese è definito sviluppato. Gli OSM ci hanno insegnato che sviluppo non è solo avere tassi di mortalità inferiori, ma è piuttosto un camminare al ritmo del più lento, verso una direzione adeguata e desiderata, cercando il benessere sostenibile per tutti, lungo una strada che non può essere scritta fin dall’inizio, ma che si costruisce passo dopo passo. Dopo tutto, come è stato detto: «Viandante non c’è un sentiero. Il sentiero si fa camminando» 3.

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