Rilanciamo una riflessione di Flaviano Zandonai (Segretario di Iris Network) e Paolo Venturi (Direttore di Aiccon) pubblicata su
Il Giornale delle Fondazioni sul tema della rigenerazione di spazi e immobili per fini sociali e culturali. (Scopri di più su:
http://irisnetwork.it/2015/10/zandonai-venturi-rigenerazione/)
C’è un velo di sfida – neanche troppo sottile – dietro la sequela di annunci che riguardano il trasferimento di patrimoni immobiliari a favore di attori della società civile. L’ultimo in ordine di tempo – ma probabilmente il primo in ordine di importanza per i lettori di questa testata – è
il decreto del Ministro Franceschini che intende assegnare parte del demanio culturale a soggetti non lucrativi. Una misura rilevante, per la quale si può soprassedere sull’utilizzo errato della locuzione «no profit» inserita a profusione in comunicati e articoli a commento (una battaglia concettuale ormai persa). Perché al di là dei dettagli, quel che va sottolineato è che non si tratta di una misura isolata: negli ultimi anni, infatti, sono diversi i progetti con la medesima finalità intrapresi da pubbliche amministrazioni (una su tutte: i beni confiscati a organizzazioni mafiose) e da aziende (stazioni ferroviarie impresenziate, siti industriali dismessi). L’obiettivo? La ricerca di un cambio di destinazione d’uso e di modello di gestione, attraverso la rigenerazione infrastrutturale ma anche (e soprattutto) dell’esercizio della funzione pubblica attraverso l’offerta di beni e servizi che incorporano elementi di utilità sociale e interesse generale.
Una pletora di iniziative che si meriterebbe una cornice di policy come, ad esempio nel Regno Unito dove esiste una asset transfer unit incardinata presso una struttura nazionale dedicata (Locality). Un approccio unitario che, nella migliore tradizione nostrana, era stato intuito in epoca non sospetta nel Padiglione Italia della Biennale di architettura del 2005 che sotto il brand «Italia» capovolto rappresentava un paese «Ailati» alla ricerca di una nuova resilienza facendo leva su micro progettualità di rigenerazione sociale. Ma senza andare così indietro nel tempo si può ricordare l’editoriale di un anno fa a firma di Renzo Piano che sul domenicale del Sole 24 Ore invitava a «rammendare le periferie». Un invito che è diventato un think tank (G124) e, di recente, un bando da 200 milioni di euro nel quale, ancora una volta, rigenerazione fa rima con welfare di comunità (inclusione, servizi sociali ed educativi, ecc.). Il mestiere tipico di molte organizzazioni sociali, anche se in questo caso i soggetti eligibili sono le amministrazioni pubbliche locali.
Ecco in sintesi i termini della sfida: far incontrare offerta e domanda di beni immobiliari per scopi sociali, ma non nelle stanze ministeriali – come sembra di intuire nel decreto del Mibact – ma piuttosto all’interno di un ecosistema di risorse dedicate che però, ad oggi, appare in buona parte da costruire. Non abbondano, infatti, le competenze specialistiche in grado di effettuare una due diligence adeguata sugli immobili in termini di potenziale di rigenerazione, guardando non solo all’asset materiale ma al contesto socio economico in termini di bisogni e risorse. E forse è ancora troppo «rapsodica» la fase di testing delle attività di interesse collettivo da svolgere nelle strutture e che spesso avviene attraverso il medium della produzione culturale. Al tempo stesso le progettualità intorno ai beni da rigenerare sono sollecitate ad «abbassare il pescaggio» dei loro partenariati, coinvolgendo non solo soggetti istituzionali, ma coalizzando anche le forme di civismo emergenti. Per non parlare poi delle condizioni di incertezza, sia in senso autorizzativo che management, in cui si attivano economie di mercato per rendere sostenibile a regime la gestione del bene rigenerato.
Il potenziale quindi c’è, quel che manca è un centro gravitazionale, un catalizzatore per l’ecosistema a supporto dei community asset. Una candidatura forte in tal senso è quella finanza che sempre più intenzionalmente raccoglie e alloca le sue risorse per realizzare impatti sociali. Non solo per una – evidente – questione di disponibilità di risorse, ma anche perché si dota di strumenti di valutazione in grado di assegnare valore a risorse intangibili che svolgono un ruolo chiave nei processi di rigenerazione, oltre che per accompagnare percorsi di imprenditorialità sociale che, in questi processi, sono spesso evocati ma non sempre effettivamente messi nelle condizioni di operare. Non da ultimo la finanza d’impatto pone la questione della scalabilità di innovazioni sociali che nella maggior parte dei casi sono localizzate e specifiche. Si tratta di temi certamente ricchi di ambivalenze, ma che hanno il merito di introdurre discontinuità positive in un campo la cui narrazione è costellata di buone pratiche chiamate a diventare una vera e propria industry. Non solo per questioni di efficienza e di economie di scala, ma per rispondere alla sfida che si palesa in una crescente offerta di spazi il cui carattere di «abbandono» o «sottoutilizzo» coincide sempre più spesso con un deficit di senso rispetto alla funzione d’uso collettivo.