Chi ha ragione? I practitioners che sempre più numerosi ne accompagnano lo sviluppo? Oppure i policy makers che, anch’essi in numero crescente, si cimentano nell’elaborazione di nuovi impianti normativi e programmi di sviluppo? (Scopri di più su: http://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/item/109-processi-generativi-imprese-comunita.html)
Per i primi le imprese – cooperative in primis – che riconoscono nella comunità l’elemento centrale della loro missione e dei loro modelli economici e di governance sono esperienze non riconducibili all’interno di modelli classificatori e schemi normativi, per cui la modalità migliore per descriverne i processi generativi rimane la narrazione. Uno storytelling che enfatizza le peculiarità di ciascuna iniziativa, lasciando spazio a consistenti elementi di adattabilità a quei contesti socioeconomici che determinano in modo sostanziale l’avvio e la progressiva affermazione delle imprese di comunità (Teneggi, 2014). Per i secondi – i policy makers – si presenta invece la sfida di regolamentare un fenomeno ancora indefinito nei suoi caratteri costitutivi e scarsamente diffuso in termini quantitativi – almeno stando alle organizzazioni che esplicitamente si definiscono come imprese comunitarie – ma che mostra un consistente potenziale di crescita. Un potenziale che è alimentato da tre macro fattori. In primo luogo la crescita, per scala e intensità, di bisogni legati all’indisponibilità crescente di servizi che collettività di diversa natura e composizione ritengono “essenziali” e che quindi assumono una veste di “pubblica utilità” (sanità, trasporti, ecc.). Queste esigenze sono riconducibili ai ricorrenti fallimenti di Stato e mercato, in particolare in quei contesti marginali diffusi sia nei tessuti urbani che nelle cosiddette “aree interne” (Carrosio, 2013); ma derivano anche da una evoluzione spontanea delle aspirazioni legate alle diverse declinazioni della vita associata (Appadurai, 2014). In secondo luogo, si rileva quella che può essere definita una “new wave” di civismo e socialità alimentata, più che da substrati ideologici e culturali, dal pragmatismo legato al riconoscimento dei vantaggi competitivi di una gamma sempre più ampia e variegata di infrastrutture materiali e immateriali gestite come “beni comuni” (Arena, Iaione, 2012); un rinascimento che, a sua volta, è accelerato dalla diffusione di tecnologie abilitanti in senso relazionale che ormai sono disponibili come commodities (Roth, 2015). In terzo luogo si può evidenziare la centralità assunta dall’imprenditorialità, intesa come veicolo di creazione di economia, lavoro e, in senso più ampio, di benefici come mobilità sociale, trasformazione dei modelli economici, autorealizzazione di sé, produzione di valore sociale (Audretsch, 2007). Elementi, questi ultimi, sempre meno considerabili come mere esternalità riferite a singole buone pratiche, specifici territori e/o ambiti di attività, ma come veri e propri fattori costitutivi del fare impresa, come peraltro dimostra l’impresa sociale che ormai può essere considerata una componente strutturale della “biodiversità” che caratterizza le forme imprenditoriali (Venturi, Zandonai, 2014).

Ecco quindi spiegato il crescente interesse per le relazioni che si creano tra imprenditorialità, comunità e trasformazione sociale (Daskalaki, Hjorth, Mair, 2015). Un legame la cui definizione, o forse meglio ri-definizione, trova uno dei suoi “epicentri” proprio nelle esperienze nascenti e consolidate di impresa di comunità. E’ per questa ragione, per il fatto di rappresentare un catalizzatore di innovazioni ad ampio raggio che riguardano l’organizzazione dei processi sociali, le infrastrutture tecnologiche, la creazione d’impresa e di nuove forme istituzionali, la strumentazione amministrativa e di policy e, non ultimo, i percorsi di ricerca che la rivista Impresa Sociale ha deciso di dedicare il suo primo numero monografico alla “morfogenesi delle imprese di comunità”, centrando in particolare l’attenzione sui processi generativi e, a partire da questi, sulle forme organizzative e normative. L’impressione, infatti, è che l’attenzione dei vari “stakeholders” delle imprese comunitarie – attivisti, reti imprenditoriali e sociali, pubbliche amministrazioni, ecc. – abbia fin qui privilegiato una prospettiva di analisi e di azione di corto periodo, guardando cioè alla ciclicità più recente che caratterizza queste iniziative (Bandini, Medei, Travaglini, in questo numero). Una scelta per molti aspetti comprensibile, perché è orientata a cogliere importanti elementi di mutamento a vari livelli, favorendo così la trasferibilità di queste esperienze pioniere e il loro utilizzo come “prototipi” per costruire modelli regolativi e piani di sviluppo. Ma è una scelta che, d’altro canto, rischia di precludere una comprensione più vasta e approfondita e quindi la possibilità di poter contare su conoscenze e dati esperienziali più articolati e consistenti, in grado di sostenere il peso delle aspettative che ricadono su iniziative comunitarie spesso embrionali alle quali vengono assegnati compiti di notevole portata: la gestione di quote crescenti di servizi di interesse collettivo, il presidio della funzione pubblica e della coesione sociale, la rigenerazione di infrastrutture in forma di beni comuni (Sacconi, Ottone, 2015), l’innovazione delle forme di co-produzione centrate sul coinvolgimento dei beneficiari o utenti dei beni e servizi (Mori, in questo numero).

Il movimento cooperativo, da questo punto di vista, è chiamato direttamente in causa, proprio perché ha una lunga storia alle spalle che è collocabile nel più ampio rapporto tra impresa e territorio. Esiste infatti una ben conosciuta letteratura secondo cui l’economia e l’imprenditorialità incorporata (embedded) nei tessuti sociali è alla base di dinamiche virtuose di sviluppo locale, anche per quanto riguarda la capacità di promuovere cambiamenti negli assetti socio-economici e innovazioni di prodotto e di processo (Trigilia, 2007). Il rapporto tra imprese e territorio rappresenta non solo una importante “dorsale” del sistema produttivo, ma un meccanismo attraverso il quale è possibile rendere disponibili risorse (in forma di beni e servizi, ma non solo) che vengono poi distribuite secondo modalità se non propriamente condivise, almeno su base allargata. In questo consiste l’attributo di “generatività” applicato su scala multi locale e che può rappresentare una modalità, peraltro tipica del contesto italiano, per la produzione di valore condiviso (shared value) (Magatti, Gherardi, 2014). All’interno di quello che può essere definito un vero e proprio paradigma di sviluppo, le imprese cooperative hanno svolto e svolgono un ruolo importante. A fronte di una esplicita dichiarazione di missione riconducibile al principio dell’”impegno verso la collettività” (Borzaga, Depedri, Galera, 2010) si possono proporre riscontri, sia sul versante del sentiment che delle performance di queste imprese. Nel primo caso la dimensione territoriale e comunitaria viene ampiamente riconosciuta dagli imprenditori cooperativi come un importante elemento strategico e fattore di competitività (Censis, 2012). Nel secondo caso emerge invece il carattere autenticamente resiliente delle imprese cooperative rispetto a quelle di capitali. Per le cooperative, infatti, i risultati aziendali in termini di valore economico e occupazionale sono, nella maggior parte dei casi, strettamente legati alla capacità di assorbire le notevoli sollecitazioni dal punto di vista economico, sociale e ambientale che hanno caratterizzato lo sviluppo recente dei territori (Euricse, 2015). Un risultato che è quindi riconducibile non alle classiche strategie di ristrutturazione aziendale che spesso scaricano i loro costi sulle comunità locali. Nel caso delle imprese cooperative la risposta alla crisi è legata a un tratto costitutivo del loro modello, ovvero al fatto di essere imprese con obiettivi e modelli di governance che, agendo sulla base di principi di equità distributiva, sono in grado di meglio calibrare l’offerta di beni e di servizi e, al tempo stesso, di mobilitare risorse aggiuntive, facendo leva sul legame virtuoso tra disponibilità all’impegno (effort) e motivazioni intrinseche largamente diffuse in compagini sociali che spesso agiscono come “comunità mutualistiche” (Borzaga, Tortia, 2006). Sarà su questa base che le cooperative potranno avviare, dopo l’assorbimento dello shock sistemico, la seconda fase del loro processo di resilienza, ovvero il riposizionamento su nuovi assetti di sviluppo locale che, nel frattempo, avranno avuto modo di contribuire a costruire.

L’apporto della cooperazione all’empowerment comunitario e alla transizione verso nuovi assetti delle economie locali non è però sempre adeguatamente riconosciuto e soprattutto rimane, per alcuni versi, incompiuto (Cottino, Zandonai, 2014). Anche in questo caso gli elementi di riscontro non mancano, sia puntuali che generali. Ad esempio all’interno di un importante dispositivo di policy come la “Strategia nazionale per le Aree interne” elaborata dal Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione economica del Ministero dell’Economia e delle Finanze con l’obiettivo di rafforzare le infrastrutture di servizi pubblici in aree extraurbane scarsamente dotate grazie ai fondi europei della programmazione 2014-2020 (Barca, Casavola, Lucatelli, 2014), non si segnalano approfondimenti rispetto al ruolo delle cooperative (più o meno orientate allo sviluppo comunitario), nonostante la loro presenza e impatto siano particolarmente significativi proprio in questi ambiti (Sanna, De Bernardo, 2015). A più ampio respiro, considerando le diverse fenomenologie di “economia della condivisione” (sharing economy) grazie alla diffusione di piattaforme online che disintermediano le tradizionali catene domanda / offerta abilitando la co-produzione e lo scambio in misura estremamente mirata e personalizzata di beni e servizi (anche di pubblica utilità), non si evidenzia un ruolo ad oggi significativo di imprese sociali e cooperative soprattutto sul fronte della governance di sistemi produttivi e distributivi che basano il proprio modello di business su principi in senso lato cooperativi (Conaty, Bollier, 2014). E ancora forme emergenti di innovazione sociale che agiscono su legami mutualistici – ad esempio strutture di coworking o iniziative di rigenerazione urbana di beni e spazi pubblici abbandonati o sottoutilizzati – non fanno uso, a volte anche per scelta esplicita, dello strumentario disponibile nell’ambito delle diverse espressioni dell’economia sociale (Calvaresi, Pacchi, Zanoni, in questo numero).

Sembra quindi delinearsi un quadro dove l’imprenditoria comunitaria scaturisce dall’arricchimento dei modelli di imprenditorialità a scopo sociale – come dimostra l’acceso dibattito sulla riforma della legge sull’impresa sociale (Borzaga, Sacconi, 2014) – ma anche dalla rigenerazione del modello cooperativo secondo modalità che possono essere collocate all’interno di tre diverse cerchie corrispondenti ad altrettanti livelli di intensità di riconoscimento e di utilizzo dei legami comunitari per definire identità, organizzazione ed economie cooperative. La cerchia centrale è costituita dalle startup di cooperazione di comunità sorte spontaneamente in epoca recente soprattutto in aree extraurbane e che hanno contribuito a ricostruire l’offerta di servi di pubblica utilità facendo leva sul recupero di attività e tradizioni locali, capaci di intercettare economie esterne, ad esempio attraverso l’offerta turistica. L’accompagnamento delle centrali cooperative ha consentito di scalare un’innovazione estremamente localizzata, intercettando a tal fine risorse per l’accompagnamento e avviando un percorso di riconoscimento grazie a brand e normative (queste ultime per ora a livello regionale) (Legacoop, 2011). La seconda cerchia raccoglie l’esperienza della cooperazione sociale che rappresenta la formula cooperativa fin qui più affermata per rispondere a un esplicito obiettivo di “interesse generale della comunità”. L’evoluzione della cooperazione sociale si inscrive certamente nell’ottica dello sviluppo comunitario, anche se limitata a determinati ambiti di attività e soprattutto in parte fagocitata all’interno di regole di fornitura di beni e servizi per conto della Pubblica Amministrazione che hanno a volte penalizzato proprio la dimensione di legame con il territorio, attraverso la quale leggere i bisogni e intercettare risorse (Fazzi, 2014). Certamente il riposizionamento delle cooperative sociali nelle dinamiche dello sviluppo locale può rappresentare un importante arricchimento del contributo cooperativo. Ad esempio attraverso le cooperative sociali di inserimento lavorativo che evolvono sempre più in forma di “multiutilities” ambientali radicate territorialmente e in grado di rispondere a esigenze di inclusione sociale. Piuttosto che attraverso cooperative di servizi sociali, educativi e sanitari che incorporano sempre più la domanda di questi servizi, attraverso il volontariato e, in forma più esplicita, il coinvolgimento degli utenti nei processi produttivi e nei sistemi di governance (Borzaga, 2009). La terza cerchia, quella più esterna, è rappresentata da tutte quelle imprese cooperative che evidenziano margini significativi per riqualificare i propri modelli di servizio e di business recuperando competitività grazie a un rapporto più strutturato con le loro comunità di riferimento. Questa macro tendenza è visibile in alcuni comparti come quello del credito (Euricse 2015) e del consumo (Depedri, Turri, in questo numero). Ambiti e mercati diversi, ma accomunati dall’esigenza di riconoscere e di valorizzare asset locali, anche in termini di apporto di risorse e meccanismi di creazione di fiducia, agendo soprattutto sul versante del coinvolgimento degli utenti come soci della cooperativa.

I processi generativi di nuove imprese comunitarie e, più in generale, di emersione e consolidamento di nuove economie cooperative rappresentano quindi un passaggio obbligato dalla narrazione all’istituzionalizzazione. Una percorso conoscitivo che si colloca in posizione mediana tra l’astrattezza delle strutture normative e il relativismo della narrazione. Questi processi, dagli andamenti non sempre lineari, sono legati a macro trasformazioni che scaturiscono da un allentamento della rigida suddivisione tra sfere istituzionali (stato, mercato e società civile) e tra i ruoli dei soggetti coinvolti nell’erogazione di beni e di servizi (produttore / consumatore).
  • Un primo fattore generativo riguarda la valorizzazione di risorse ambientali e storico culturali spesso svilite o non riconosciute come tali. Le economie generate da questi asset materiali e immateriali hanno un valore in sé – nel senso che si ispirano a paradigmi di sostenibilità ambientale e sociale – e inoltre hanno un valore strumentale, perché producono e redistribuiscono risorse a favore di altre iniziative di carattere sociale che, per ragioni diverse, non sono in grado di garantire la loro sostenibilità economica (Colucci, Cottino, in questo numero).
  • Un secondo fattore riguarda la promozione di partnership tra soggetti diversi – principalmente lungo l’asse pubblico – privato – che insistono non solo sul versante della pianificazione delle politiche, ma sulla reciproca corresponsabilizzazione in sede di attrazione di risorse e cogestione di iniziative. Le imprese di comunità, da questo punto di vista, si collocano pienamente in contesti di “amministrazione multipolare” in contrapposizione a modelli bipolari dove invece l’amministrazione pubblica si rivolge a soggetti esterni esclusivamente nella veste di fornitori di beni e di servizi (Bombardelli, 2011).
  • Terzo e ultimo fattore generativo riguarda la già ricordata diffusione di modelli di produzione dove i beneficiari svolgono anche un ruolo attivo in sede di progettazione e gestione delle attività (Pestoff, 2012). Queste forme di prosuming pongono sfide non indifferenti rispetto al riconoscimento e alla regolazione di modalità di azione dove i ruoli tradizionalmente separati di produttore e consumatore sono fortemente intrecciati. In questo ambito giocano un ruolo tutt’altro che secondario tecnologie che abilitano la coproduzione come quelle di produzione di energie rinnovabili (Tricarico, in questo numero).
Rimane sullo sfondo di questa analisi la questione della governance di questi processi che rappresenta, essa stessa, un ulteriore campo di azione per l’imprenditoria comunitaria. Esistono infatti esperienze di questa stessa specie in forma di agenzia di sviluppo con l’obiettivo di creare e manutenere network associativi e imprenditoriali che hanno come missione la rigenerazione e la valorizzazione di risorse locali. Si tratta di imprese-rete che agiscono non solo come tecnostrutture di supporto o di programmazione, ma sono impegnate nel sostegno diretto a iniziative imprenditoriali e nel coordinamento di filiere produttive. Questi veicoli societari – come i community development trust nel Regno Unito – implementano partnership pubblico – private attraverso un modello di governance di rete che coinvolge organizzazioni e istituzioni (in particolare su base locale) (Le Xuan, Tricarico, 2014). E’ forse questo il passaggio chiave, in realtà ancora poco esplorato, per innovare le politiche locali e, con esse, accelerare l’affermazione di un nuovo ciclo di vita dell’imprenditoria comunitaria nel nostro Paese.

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