Molte concezioni di giustizia tendono a riflette sui fenomeni sociali secondo una prospettiva cieca rispetto allo spazio. (Scopri di più su:
http://www.benecomune.net/articolo.php?notizia=1921)
Carla DananiSenza cadere nella trappola del feticismo spaziale si deve dare attenzione all'interazione tra relazioni sociali e spazio. La vita delle persone ha sempre a che fare con una dialettica socio-spaziale. Con processi che sono temporali, socio-economici, politici, culturali ma anche relativi allo spazio.
Essere al mondo
Riprendendo una lunga e feconda tradizione antropologica, diciamo dell’essere umano come coscienza incarnata. Per il tramite del corpo, esistere è sempre essere allocati da qualche parte presso altri esseri umani e le cose del mondo, ancor prima che il pensiero riesca a pensarli, e a riflettere sul modo di relazionarsi ad essi. La vita umana è un’esistenza in, e attraverso, la spazialità: proprio perché è una vita in, e attraverso, un corpo cosciente, che percepisce, agisce e si muove avendo una certa "presa" sullo spazio, grazie alla quale si orienta e si localizza. Inerisce allo spazio e al tempo, si applica ad essi e li abbraccia: ha con il mondo una familiarità che è più antica del pensiero, come insegna Maurice Merleau-Ponty.
Esseri umani e cose hanno perciò una diversa relazione con i luoghi che occupano: degli esseri umani si deve dire, propriamente, che abitano. Essere al mondo è, per l’umano, sempre essere in un qui che ha una struttura d'orizzonte, in un nesso fondamentale con tutti i “là” rispetto a cui è “qui”, ed è sempre anche una pratica di familia-rizzazione, una dinamica di orientamento. L'essere umano, più propriamente, è un abitante "en passant": abita, di passaggio. Nella dimensione spaziale, infatti, viene vissuto il tempo, in cui l’esistenza umana ugualmente si costituisce. La logica dell’esistere è perciò sempre anche una topologica. Pensare la città, allora, significa intenderla come polis, civitas, ed anche urbs.
Una questione di giustizia
Se agli inizi degli anni novanta il dibattito tra le teorie della giustizia si era fissato sull'alternativa tra redistribuzione e riconoscimento, opportunamente negli ultimi anni l'attenzione è stata spostata alle deliberazioni e al processo decisionale. Si è inoltre approfondita la riflessione per comprendere come evitare la deriva di un nichilismo post-moderno, in cui la diversità rischia di atomizzare e disintegrare, anziché arricchire, anche l’azione politica. Tutte queste concezioni di giustizia, tuttavia, rientrano in una tradizione che riflette sui fenomeni sociali secondo una prospettiva cieca-allo-spazio.
Senza cadere nella trappola del feticismo spaziale (come se i processi spaziali fossero in ogni caso preminenti), si deve richiamare l'attenzione sull'interagire tra relazioni sociali e spaziali. La vita delle persone ha sempre a che fare con una dialettica socio-spaziale: cioè con processi che sono insieme temporali, socio-economici, politici, culturali ma anche spaziali. Laddove spaziale va compreso come concetto non solo di contesto, ma anche di contenuto: non si tratta cioè, solamente, di registrare che in alcuni luoghi si realizzano situazioni particolari, e di evidenziare le condizioni che vi favoriscono certi fenomeni. Lo spazio non va inteso solo come una complicazione di fondo dell’analisi, né come riferito alla mera estensione, ma, appunto, piuttosto come uno dei fattori effettivi che costituiscono la stoffa dei fenomeni. È quindi un elemento costitutivo della costruzione di situazioni di giustizia o ingiustizia.
Certo lo spazio esiste nel prender forma di luoghi, e quindi è anche un prodotto sociale e culturale: cambia, viene trasformato, non va inteso come una sorta di sostanza fissa, definita e coerente, e neppure come una pagina bianca; i fenomeni sociali influenzano quelli spaziali tanto quanto viceversa. E, come ha insegnato Foucault rispetto all’interconnessione tra spazio conoscenza e potere, le differenti geografie non sono neutrali rispetto alle pratiche.
Nella città questo riguarda il dar forma allo stare insieme tra estranei: cioè il convivere tra "lontani" che sono vicini.
Come insegna il racconto mitico della prima fondazione di città (Gen. 4), il solco che traccia il confine fondativo istituisce il "noi" e separa dallo straniero: sug¬gerisce, in modo simbolico, che vivere insieme non è il mero sommarsi di una molteplicità di individui. È Caino, colui che segna il solco nel suolo, e Dio mette su di lui, il primo fratricida, un segno, perché nessuno lo tocchi. Mentre non si tace della difficoltà del convivere, nello stesso tempo si indica una direzione di senso: far vivere e non morire, spezzare il cerchio della violenza. È l'indicazione verso un convivere che resta da inventare, nel progetto fecondo di un essere-con a cui, anche, già si appartiene, e che, come dice un altro racconto delle origini, il mito di Prometeo ed Hermes, raccolto da Platone nel Protagora, necessita di pudore e di giustizia: le virtù delle buone relazioni di alterità.
Uno sguardo olistico
Le pratiche sociali sono possibili in quanto depositarie di un senso, non esistono solamente per la loro efficacia; rilevante, inoltre, è anche il piano degli affetti: perché l’impatto affettivo instaura associazioni e catene di rapporti, che neppure la denuncia di manipolazioni riesce a volte a spezzare.
La considerazione della città, questo convivere tra estranei, richiede uno sguardo olistico: non solo polis, civitas e urbs sono dimensioni interconnesse, che rinviano l'una all'altra, ma interagiscono con un ambiente naturale, con un territorio, nel sistema terra costituito da ordini economici politici culturali e sociali ormai globali.
Limito qui il discorso alla sottolineatura di due urgenze. La prima riguarda l'arte e la storia delle città, nelle opere e nelle forme dei luoghi pubblici: sono un potente strumento di educazione alla cittadinanza e di innalzamento spirituale. Il riferimento va al tessuto continuo, diffuso e unitario di chiese, palazzi, cortili, giardini, paesaggi: non può essere ridotto alla servitù turistica e al consumo intellettuale da spettacolo. Le opere d'arte non servono a fare qualcosa, cioè a produrre rendita, ma a essere e diventare qualcosa: più umani, più civili, fors'anche più felici. In questo senso si deve pensare alla loro tutela, ed agli organi istituzionali preposti a vegliarla. Una collettività, come fenomeno politico e sociale storico, non è un mero dato di fatto: ha un costituirsi (che è continuo), struttura relazioni (anche di po¬tere), deve conservare la propria identità (che non coincide con le radici: perché mentre queste sono statiche, quella è dinamica). Ha bisogno, perciò, di luoghi di memoria: che sono anche musei, biblioteche, certi paesaggi e località, personaggi, creazioni artistiche; manufatti o elementi naturali del paesaggio, come ha sottolineato Pierre Nora, essi «non sono ciò di cui si ricorda ma il dove in cui la memoria lavora; non la tradizione stessa, ma il suo laboratorio». Questi sono i luoghi della bellezza: confermino un senso ordinato di armonia o perturbino certezze consolidate.
Urgente, inoltre, è una risemantizzazione dell'idea di sostenibilità, tenendo conto di cinque dimensioni indissociabili: sociale, economica, ecologica, geografica e culturale. Non si tratta semplicemente di conservare le risorse in prospettiva di risparmio, in una forma di egoismo di specie, nè solo di evitare il conflitto sociale o fallimenti imprenditoriali. Si tratta di cambiare sguardo, e questo va esercitato in molti modi: pensare e progettare in termini di territori e non solo di città, stringendo un nuovo patto tra città e campagna; riconoscere a ciascun essere umano soggettività pubblica, ridefinendo la questione dei diritti e attivando adeguati processi partecipativi che costruiscano patto sociale condiviso; aver cura di ciò che è valore, combattendo la riduzione di tutto a merce.
È necessario, in questa prospettiva di futuro, avere il coraggio di porre la questione del senso, e non solo del funzionamento e della efficacia: pensando per scenari strategici, attivando rinnovate politiche, attraversando le pratiche quotidiane, rigettando il dominio dell'economico quanto qualsiasi ideologia che pretenda, a volte negandola, di requisire la verità. La verità resta, infatti, ciò a cui ci si dispone sempre e di cui non si dispone mai.