"Matti per il calcio": gli infermieri al fianco degli utenti dei Centri di salute mentale. Quali sono i benefici dell'attività sportiva? (Scopri di più su: http://www.uisp.it/nazionale/extra/archivio_newsletter/preview_uispress.php?id_newsletter=191&newsletter_type=uispress#articolo4)

Giovedì 17 settembre è partita la nona edizione della Rassegna nazionale Uisp Matti per il calcio: utenti dei Centri di salute mentale di tutta Italia, operatori e volontari, si incontrano come ogni anno sui campi dell’impianto sportivo Martelli di Montalto di Castro per giocare e dare un calcio allo stigma.

Tra i quattrocento che indossano calzoncini e scarpini da calcio ci sono anche gli infermieri che assistono quotidianamente i ragazzi nei loro percorsi di riabilitazione, Giuseppe Carrozza, dell’Asl 3 di Genova, è uno di loro: “Sono un infermiere professionale e lavoro nell’ambito della salute mentale. Il nostro ruolo prevede lo svolgimento di diverse funzioni e attività, come la distribuzioni dei farmaci o gli interventi del TSO (trattamento sanitario obbligatorio), e tra queste rientra anche l’attività riabilitativa risocializzante. Con i nostri pazienti, giovani dai 18 ai 40 anni, utilizziamo lo sport per lavorare sulla riabilitazione e migliorare le condizioni psicofisiche dei pazienti”.

Perchè funziona il calcio come attività riabilitativa?

“Perché spesso i nostri utenti in età giovanile hanno frequentato i campi di calcio, e noi rispolveriamo abilità che la malattia ha sopito. Inoltre, c’è una risonanza nazionale sui mezzi di comunicazione, il contesto del calcio per loro rappresenta un momento di normalità. Anche la condivisione dell’allenamento e della partita con noi e gli operatori è utile: in quel momento noi non rappresentiamo la malattia, la psichiatria, ma un vero momento di risocializzazione. Si gioca in un luogo che non è il Csm, ma un campo in cui si allenano anche gli altri sportivi, e soprattutto mentre espletiamo quella funzione indossiamo la stessa divisa dei ragazzi, ci cambiamo nello stesso spogliatoio, parliamo della squadra del cuore o di tattica, indossiamo un ruolo di normalità. Non ci percepiscono come infermiere o psichiatra di riferimento, ma come compagno di squadra o avversario. Il calcio funziona anche perchè ci sono elementi riabilitativi: il campo è limitato, sanno che per giocare devono stare in quello spazio; l’arbitro rappresenta l’autorità, quello che lui decide si rispetta; ci sono le vittorie che danno gratificazione e le sconfitte che danno frustrazione compensata dal fatto che si vince e si perde insieme, il singolo non assume su di se la responsabilità della sconfitta ma la si suddivide, ed è quindi più tollerata. Poi il fatto che all’interno di Matti per il calcio ci sia l’organizzazione di un torneo territoriale e nazionale, con tesseramento, regolamenti e ammonizioni, rappresenta un dato di realtà che fa percepire ai nostri pazienti che stanno facendo un percorso di terapia, ma inserito in un contesto di normalità”.

È possibile per voi riscontrare i benefici dell’attività sportiva sulla riabilitazione degli utenti?

“Noi verifichiamo che i pazienti che frequentano in modo regolare le nostre attività riducono il numero dei ricoveri e migliorano l’aspetto organico, riducendo gli effetti collaterali dei farmaci, come rigidità muscolare e tendenza ad ingrassare. Alla lunga beneficiano anche della riduzione del dosaggio dei farmaci. Inoltre, hanno la possibilità di percepire il Csm non solo come luogo di terapia, colloqui e ricoveri, ma anche come luogo dove possono trovare gratificazione e svolgere un’attività sportiva che gli fa bene. Nella mia esperienza, l’attività del calcio è quella che ottiene più adesioni e continuità”.

Come è organizzato il vostro lavoro?

“Il nostro team è formato da due infermieri, un operatore sanitario e vari volontari che si allenano con noi. La presenza di elementi esterni è positiva perchè non siamo sempre solo operatori e pazienti, ma ci apriamo a società e territorio. Dedicare parte dell’attività che svolgiamo alla riabilitazione con i pazienti è salutare anche per noi, ci permette di uscire dalla malattia e considerare i pazienti in quel momento come persone. Abbiamo un riscontro che il lavoro che facciamo dà benefici e risulta terapeutico, è una gratificazione che compensa le frustrazioni”.

Elena Fiorani

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