Denunciando la gravità della crisi non parla mai delle sue origini:
colonialismo europeo e interventi militari. Il Capo di Stato maggiore
Usa: «I profughi problema enorme per i prossimi 20 anni». (Scopri di più
su:
http://www.greenreport.it/news/energia/profughi-la-crisi-si-risolve-fermando-le-guerre/)
di Umberto Mazzantini
Mentre
la Commissione europea sta lavorando a un nuovo piano – scritto sotto
dettatura di Merkel e Hollande – per redistribuire 160.000 profughi
arrivati in Italia, Grecia e Ungheria, mentre il governo neofascista
ungherese stende inutili barriere di filo spinato e dirotta i treni dei
migranti, mentre l’Alto commissario Onu per i rifugiati, Antonio
Guterres, esorta l’Ue a mettere in atto un “programma di ricollocazione
di massa” per circa 200.000 rifugiati, vengono a mente le parole di
Zygmunt Bauman: «Le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema
non si risolverà, per quanto massicci possano essere i lucchetti.
Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze che
causano l’emigrazione; possono contribuire a occultare i problemi alla
vista e alla mente, ma non a farli scomparire».
E’ quello che
sembra pensare anche il generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore
delle forze armate Usa, che in un’intervista ad Abc News ha definito
«un problema enorme» la migrazione verso l’Europa dalla Siria e dal Nord
Africa, e ha detto che i militari Usa e la Nato sono sempre più
consapevoli «che questa è una vera e propria crisi».
Anzi, per
Dempsey la questione dei migranti è «la questione più importante» che i
capi militari Usa e Nato discutono da mesi nelle loro riunioni
periodiche: «Gli europei del sud sentono di non avere abbastanza
sostegno per questa sfida, i leader dell’Europa centrale e
settentrionale si comportano come se si trattasse di un problema che
deve essere affrontato a sud. Anche se credo che ci stia cominciando a
essere un po’ di consapevolezza che questa è una vera crisi».
Dempsey
ha detto che la questione dei migranti in fuga dalla violenza in Siria e
in Nord Africa è «una cosa che mi preoccupa» e ha aggiunto che una
delle cose che è cambiata da quando presiede il Joint Chiefs of Staff «è
l’importanza del problema di questi rifugiati e sfollati interni, è un
problema enorme». Dempsey forse si può permettere questa velata
autocritica perché il suo mandato scade il primo ottobre, quando il suo
posto verrà preso dal generale della Marina Dunford, ma denunciando la
gravità della crisi non parla mai delle sue origini: il colonialismo
europeo in Medio Oriente e dopo gli interventi statunitensi con le
coalizioni di volenterosi o la Nato (Iraq, Somalia, Afghanistan, Libia,
Siria, Yemen…), che prima hanno tracciato sulla sabbia una mappa del
Medio Oriente che rispondeva alle zone di influenza occidentali e poi
hanno avviato guerre petrolifere per assicurarsi le risorse energetiche e
abbattere dittatori che da amici erano improvvisamente diventati
scomodi.
Anche il commento di Dempsey sul piccolo kurdo di tre
anni annegato sulle coste turche è segnato da un velo di ipocrisia e di
dimenticanza. Secondo il generale Usa, quelle foto potrebbero avere «un
effetto simile a quella del 1995 del mortale attacco con i mortai alla
piazza del mercato di Sarajevo, che spinse verso l’intervento della Nato
in Bosnia. Ricordo che il mondo si fermò e guardò a Sarajevo. Oggi,
mentre stiamo seduti qui, ci sono 60 milioni di rifugiati nel mondo,
42.000 famiglie al giorno secondo le Nazioni Unite». Ma quel bambino
morto che ha commosso il mondo è frutto della sporca guerra avviata
dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo in Siria, che ha trasformato
la protesta democratica contro la dittatura di Bashir al Assad in una
guerra settaria, che ha fatto nascere lo Stato Islamico Daesh. Quel
bambino che ha conosciuto solo guerra e che aveva visto per la prima
volta il mare nel quale è annegato veniva da Kobane, la città martire
del Rojava, dove le milizie progressiste turche – le stesse che in
queste ore subiscono i bombardamenti di un Paese Nato, la Turchia –
hanno sconfitto le milizie islamo-fasciste del Daesh. E’ in questa serie
infinita di ingiustizie, di scelte geopolitiche crudeli, di oppressione
dei diritti del popolo kurdo, delle furbizie francesi, britanniche e
italiane in Libia, dell’appoggio ai dittatori amici come quello che ha
trasformato l’Eritrea in una prigione e in una camera di tortura, che
nascono i 60 milioni di rifugiati che, come dice Dempsey sono «un
problema che i leader futuri dovranno affrontare per decenni»,
organizzando risorse ad un livello sostenibile per affrontare questo
sconvolgimento planetario «per almeno 20 anni».
Ma Dempsey e i
vertici della Nato e le cancellerie occidentali per risolvere il
problema dei profughi farebbero bene a dare retta a un altro bambino, a
quel profugo siriano triste e fiero allo stesso tempo che – ripreso da
Al Jazeera mentre rispondeva a un poliziotto ungherese – ha detto una
verità che in troppi non dicono, che in troppi fanno finta di scordarsi:
«La polizia non ama i siriani in Serbia, in Macedonia, in Ungheria o in
Grecia. Fermate la guerra e non verremo in Europa. La Siria ha bisogno
di aiuto».
Appunto, le guerre, come insegna anche la tragedia del
sanguinoso smembramento della Yugoslavia, bisogna impedirle, non farle.
E per questo ci vogliono politici che amino i loro popoli, non
demagoghi xenofobi o generali pentiti per guerre volute da politici che
credono che gli uomini, le donne e i bambini del mondo siano pedine su
una scacchiera geopolitica, innumerevoli pedoni da sacrificare nella
partita per le risorse e il dominio, scarti da lasciare annegare nelle
onde dell’Egeo o del Canale di Sicilia.