In questi giorni di piena estate non si riesce a trovare serenità, e non tanto per il gran caldo: troppe sono le notizie, di certo non rassicuranti per il nostro Paese, che si rincorrono nei notiziari televisivi e sulla stampa. Dal degrado in cui affonda la grande bellezza di Roma svelato al mondo dal New York Times, ai nuovi tagli previsti dal piano sanitario, che incideranno direttamente sui cittadini e saranno varati, con tutta probabilità, a nuovi colpi di fiducia dal governo. Tra le notizie più allarmanti c’è sicuramente il susseguirsi di arrivi di persone in fuga da guerre o da condizioni di vita insostenibili, provenienti dalle altre coste del Mediterraneo e non solo, proprio mentre infuria l’inchiesta anche intorno il Consorzio Cara di Mineo, il più grande centro per richiedenti asilo d’Italia. (Leggi di più su: http://www.acli.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=10132:il-lavoro-negato-al-mondo-di-sotto-un-alleanza-possibile-fra-italiani-e-immigrati&Itemid=770#ixzz3l2FjqHD9)

Scritto da Giuseppe Marchese

L’emergenza sbarchi non accenna a diminuire: il numero di migranti che tentano di raggiungere il Mediterraneo nella speranza di arrivare in Europa è aumentato di oltre il 10% nei primi cinque mesi del 2015. Secondo le previsioni del governo italiano, saranno complessivamente 200 mila gli arrivi sulle coste italiane quest’anno, rispetto ai 170 mila del 2014. Secondo stime dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) sono 150 mila i migranti che hanno raggiunto l’Europa via mare nei primi mesi del 2015, per la quasi totalità in Italia e in Grecia. Senza contare il carico di vittime che l’asettica contabilità dell’immigrazione porta con sé: 1.900 migranti morti in mare, più del doppio rispetto al 2014. Perché non c’è viaggio della speranza che non comporti per chi lo compie il rischio della propria vita, come ci ha ricordato – se fosse stato necessario – nei giorni scorsi la triste vicenda di Raghad, la bambina siriana affetta da diabete e morta nella traversata per approdare in Europa.

Considerati questi numeri e la loro continuità nel tempo, si può realisticamente ancora affermare che si tratta di un’emergenza? Certamente non si tratta di un’invasione, come qualcuno insiste a chiamarla, ma un fenomeno costante che è riduttivo definire, appunto, “emergenza”, a meno che non si voglia continuare ad evitare di pensare alla questione in termini strutturali e lungimiranti.

Nel nostro Paese in prima fila nel ricevere gli immigrati si trovano le città siciliane e del Sud e le associazioni di volontariato, come Caritas, che fanno fronte – ormai con grande fatica – alla prima accoglienza. Ma poi l’iter prevede che vengano inviati in tutte le regioni d’Italia. Ultimamente assistiamo, più o meno consapevoli e più o meno consenzienti, alla montante insofferenza di chi, senza preavviso né preparazione, è chiamato a sobbarcarsi l’accoglienza (dai governatori del Nord Italia che non vogliono altri immigrati, agli abitanti delle zone periferiche delle nostre città), col rischio di assecondare spinte xenofobe e coloro i quali le cavalcano politicamente a fini elettorali.

Per noi vale ora e sempre il richiamo di Papa Francesco nella recente Enciclica Laudato sì, il quale ricorda che «la mancanza di reazioni di fronte a questi dram­mi dei nostri fratelli e sorelle è un segno della perdita di quel senso di responsabilità per i nostri simili su cui si fonda ogni società civile» (25). Ma dentro questi drammi ci sono anche le storie di molti connazionali che, esasperati, mostrano sempre maggiori resistenze nei confronti degli immigrati. Questi ultimi secondo il rapporto Cisf 2014, sono visti in larga misura come un potenziale pericolo: alla domanda su chi, tra italiani e immigrati debba avere la precedenza nell’accesso al lavoro in condizioni di crisi economica, l’80% della popolazione indica i primi.

Innanzitutto si deve guardare la realtà per quella che è. E la realtà è che ovunque si vede la necessità del lavoro. C’è bisogno estremo di lavoro: nelle campagne, nelle città, nelle metropoli, nel nostro ambiente in generale, per la cultura, per la cura delle persone e della società, per la mobilità, per lo sviluppo di una giusta e diversa economia: è urgente progettualità, cura, manutenzione, messa in sicurezza, servirebbero miriadi di cantieri territoriali per migliorare realmente la qualità della vita.

La realtà è che esistono milioni di migranti i quali, date le condizioni internazionali di disumano (neo)colonialista sfruttamento dei territori di origine (in Africa e altrove) e delle persone, non potranno che aumentare. Dall’altro lato ci sono comunità che non sono pronte ad accoglierli, che spesso vedono gli stranieri tenuti sospesi nell’incertezza e precarietà più totali, diventando, purtroppo, il capro espiatorio di una situazione di generale crisi che non fa sconti a nessuno.

La crisi del lavoro è crisi di Lavoro in quanto l’attività operosa dell’essere umano è sempre più mercificata, quando non schiavizzata. In questo quadro la disoccupazione rischia di divenire funzionale all’attuale sistema di potere, perché consente di scaricare l’onere degli effetti negativi nel mondo di sotto, producendo un conflitto tra chi non ha niente e chi ha solo qualcosa da difendere, e perché fa sì che si possano liberare profitti per il mondo di sopra. Il capolavoro del Potere del resto è far credere che il nemico sia chi sta sotto e non chi sta sopra.

La crisi del lavoro ha origini ben diverse e la data di avvio non coincide solo col famoso crack finanziario del 2008, ma si può far risalire a scelte politiche ed economiche iperliberiste di carattere nazionale e sovra-nazionale che provengono da molto prima (anni '70, '80 e '90) e che oggi, attraverso il dogma\meccanismo dell’austerity, continuano a mettere in ginocchio le fasce più deboli della popolazione.

I dati aiutano a far chiarezza: secondo l’Istat, ad esempio, in Italia la disoccupazione generale oscilla ormai fra il 12% e il 13% (praticamente triplicata dal 2007, quando era del 4,2%), mentre quella giovanile (15-24 anni) ha superato il 41%. I disoccupati di lunga durata continuano a crescere raggiungendo quasi il 57% secondo l’Istat, addirittura il 60% secondo l’Ocse. Allarmanti anche i dati relativi alla povertà: nel 2013 il 12,6% delle famiglie è relativamente povero (sono in totale 3 milioni 230mila); le persone in povertà relativa sono poco più di 10 milioni, corrispondenti al 16,6% della popolazione. La povertà assoluta coinvolge il 7,9% delle famiglie, per un totale di circa 6 milioni di individui. Se poi si assume il Pil pro capite come una misura del benessere (ovviamente non è l’unica) l’Italia manifesta una performance particolarmente negativa: mentre nel 2000 il Pil pro capite (in Ppa) dell’Italia era più alto di quello della media degli Stati Ue28 del 16,1%, gli effetti della profonda crisi economica sperimentata dal nostro Paese hanno portato il livello nel 2013 al di sotto della media dei Paesi Ue28 (-2,2%). Come si conciliano, dunque, i bisogni di questi due gruppi (fasce deboli e marginali italiane e immigrati) messi in contrapposizione e concorrenza tra loro?

A tratti sembrano questioni irrisolvibili che però non sono più tali se si assume una diversa prospettiva. Una strada possibile per non incancrenire il reciproco disagio e alimentare le fratture deve consistere nel guardare in modo diverso alla questione, non più in termini oppositivi ma convergenti: la soluzione non è una lotta fra poveri per l’accesso a risorse scarse (come quelle assegnate al lavoro) ma ripensare quest’ultimo secondo una logica completamente diversa, che realizza anziché mortificare le necessità vitali delle persone e delle comunità e i diritti di cittadinanza.

Se, infatti, consideriamo le tante difficoltà di un Paese che stenta a ripartire, ci si rende conto del tanto lavoro che c’è da fare, di un intero Paese da manutenere in vita, dal decoro urbano alla cura del territorio, fino alle molte attività in difesa dei più fragili. E se lo stesso Fmi ci informa che serviranno almeno 20 anni per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi, è anche vero che il lavoro che c’è va riconosciuto e organizzato, secondo un modello sociale e di sviluppo che non prescinda dalla promozione della persona. Allora, è possibile immaginare di mettere all’opera le molte risorse inattive in Italia? Sperimentare insieme, italiani e stranieri, forme di lavoro retribuito che avrebbero – oltre che un indubbio vantaggio individuale – positive ricadute sui percorsi di conoscenza ed integrazione e sulla qualità della vita collettiva?

Non sono ormai maturi i tempi per coinvolgere immigrati e autoctoni in iniziative congiunte, come organizzazioni cooperative miste messe all’opera per rivitalizzare cittadine, borghi e terreni agricoli montani abbandonati?

Una simile proposta è stata già avanzata da diversi intellettuali, i quali per salvare l’agricoltura e la sua qualità ritengono necessaria una riforma profonda, fondata su «una relazione diretta tra aziende, che rispettano ambiente e diritti dei lavoratori, e organizzazioni dei consumatori responsabili», che coinvolga tutta la forza lavoro non occupata, compresi coloro che fuggono da terre tormentate. O occuparla in attività sociali ed ambientali legate al recupero dei suoli dal dissesto idrogeologico, alla ristrutturazione e alla messa a norma e in sicurezza di edifici, delle scuole, degli ospedali, alla bonifica e rivalorizzazione di spiagge e fiumi, all’assistenza di anziani e disabili, ecc. Al fine di rendere visibili, luccicanti ed economici i giacimenti immensi del petrolio italico e fortuna del nostro Paese: la Bellezza avuta in dono.

In tal modo le sorti di italiani e stranieri verrebbero ad essere collegate nell’ambito di attività mirate alla coesione sociale e al bene comune. I primi avrebbero il vantaggio di un lavoro, i secondi non resterebbero inattivi, male assistiti e anche mal sopportati, ma consegnati ad una dimensione civile e responsabile, in cui possono impegnare la diaria che ricevono e al contempo provvedere alle necessità della vita ordinaria (pulizia e manutenzione dei locali in cui vivono, acquisto e preparazione dei pasti, ecc.). Positiva, in questo quadro, sarebbe anche la crescita di un associazionismo di immigrati, che già esiste nella nostra nazione, capace di fungere da ponte coi Paesi di provenienza.

Soprattutto si sbriciolerebbe l’idea che ci sia un solo modello pensabile, quello dei più forti e dei privilegiati, un modello che si è rivelato generativo di diseguaglianze sempre maggiori, minando alle basi i diritti dei cittadini e le conquiste sociali realizzate in secoli di storia.

Per poter realizzare una simile iniziativa servono, quindi, amore e intelligenza per il Paese e una strategia progettuale e condivisa mirata a un profondo ripensamento e ribaltamento delle attuali politiche del lavoro e migratorie in un’ottica di coesione e sviluppo. Secondo Federico Soda, direttore dell’Ufficio di coordinamento dell’Oim per il Mediterraneo, «l’emergenza umanitaria sarebbe più gestibile se tutti i Paesi coinvolti collaborassero di più tra di loro e dessero risposte più esaurienti e strutturate» a un fenomeno di non facile e immediata soluzione in quanto frutto di circostanze politiche, sociali ed economiche. Ma la solidarietà e le grandi questioni sociali sembrano sparite dall’orizzonte europeo, a tutto vantaggio del revanscismo delle peggiori trame nazionaliste.

Potrebbe una grande iniziativa sul lavoro articolarsi in modo capillare ed autonomo sui territori e vedere protagonista fondamentale il terzo settore nella sua gestione in virtù di una pluridecennale storia e di una competenza e di una credibilità maturata in questo campo? Ma soprattutto potrebbe restituire respiro alla asfittica e cattiva politica europea di questi anni, restituendole l’obiettivo primario della promozione, dell’inclusione e della coesione sociale?

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