Disoccupazione, precarietà, disuguaglianza, ricchezza e povertà. I giornali spesso utilizzano questi termini associandoli a numeri, a territori, a nazioni, per rimarcare le drammatiche differenze che esistono. (Leggi di più su:
http://www.acli.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=10140:diseguaglianze-ridurre-le-sofferenze-sociali&Itemid=778#ixzz3kkVwNMC3)
Scritto da Fabio Cucculelli
Ma dietro numeri e parole c’è la vita di molte persone, di donne, giovani, uomini, famiglie che ogni giorno vivono sulla propria pelle la crescita della disuguaglianze diventata inaccettabile, insostenibile, indecente, soprattutto perché questo aumento avviene negli stessi luoghi, nelle stesse città, nelle stesse nazioni: dove troviamo il massimo della ricchezza assieme al massimo della miseria. E si traduce in una persistente e immutabile privazione di opportunità, di possibilità di vita e di lavoro, in una sofferenza sociale senza fine.
L’Ocse, con il suo
rapporto sulle disuguaglianze, ha rilevato che l’1% più benestante della popolazione italiana detiene il 14,3% della ricchezza nazionale netta: il triplo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9% degli attivi totali. La crisi ha inoltre accentuato le differenze, dato che la perdita di reddito disponibile tra il 2007 e il 2011 è stata del 4% per il 10% più povero della popolazione e solo dell’1% per il 10% più ricco.
L’Istat nell’indagine sulla Povertà in Italia rileva che un milione e 470mila famiglie (il 6,8% della popolazione residente, ovvero 4 milioni e 102 mila persone) sono in condizione di povertà assoluta, con percentuali che salgono al Sud (8,6%) e sono più basse al Nord (4,2%) e al Centro (4,8%). E
il rapporto Svimez ci segnala che dal 2011 al 2014 le famiglie povere sono aumentate in Italia del 37,8% al Sud e del 34,4% al Centro-Nord: nel 2013 una persona su tre nel Mezzogiorno era a rischio povertà, contro una su dieci al Centro-Nord.
Queste analisi offrono alcune indicazioni ma evidenziano anche un limite del dibattito pubblico: quello di considerare spesso la disuguaglianza come un problema di tipo economico. Si scelgono spesso indicatori e parametri economici (reddito, consumi, rendite) mettendo in secondo piano altri elementi di natura sociale che solo in alcuni casi sono connessi a fattori economici. Questa visione rischia però di mettere in secondo piano la complessità del fenomeno. Esistono infatti svariate forme di disuguaglianza: economica, sociale, politica, digitale.
Guidati da queste motivazioni abbiamo ideato e proposto un approfondimento di
www.benecomune.net dedicato al tema della disuguaglianza dal titolo Chi troppo chi niente. È possibile lo sviluppo a partire dalla riduzione delle diseguaglianze? Per dare il senso del percorso intrapreso abbiamo realizzato anche la parola chiave disuguaglianza sociale ed economica. Infatti, la necessità di ridurre la disuguaglianze per animare la democrazia, sarà il focus tematico del prossimo Incontro nazionale di studi che le Acli terranno ad Arezzo dal 17 al 19 settembre.
I diversi contributi proposti da economisti (Leonardo Becchetti, Enrica Chiappero-Martinetti, Giuseppe Notarstefano), filosofi (Stefano Semplici), psicologi (Paola Villano), esperti di politiche del lavoro (Maurizio Sorcioni) ed esponenti della società civile (Francesco Petrelli) cercano dare ragione della complessità del fenomeno della disuguaglianza rispondendo ad alcune domande di fondo: cosa sta generando questo aumento delle disuguaglianze economiche e sociali? E’ possibile cambiare rotta e ridurre le disuguaglianze e la sofferenza sociale? Che cosa può fare la politica? La democrazie occidentali possono essere rianimate indirizzandole verso scelte più giuste ed eque sul piano economico, sociale e fiscale?
Ne esce un quadro ricco e originale che mostra come al di là della retorica e dei numeri “le diseguaglianze siano – come osserva con lucidità Enrica Chiappero-Martinetti - in larga misura il risultato della politica e delle politiche: il fatto che in alcuni paesi ci siano più o meno diseguaglianze, più o meno opportunità, che in alcuni paesi aumenti (…) mentre in altri no (o comunque meno) non deriva dal fatto che i mercati o le leggi economiche funzionino diversamente ma dipende dalla cornice istituzionale, legale e sociale esistente che contribuisce a favorire o a contrastare la diseguaglianza. In particolare: come è strutturato il sistema educativo e come (oltre a quanto) è finanziato; come funziona il sistema bancario e finanziario; come funzionano le leggi antitrust; come sono disegnate le politiche sociali e in che misura sono efficaci o provocano distorsioni. Ogni decisione e azione politica in queste, come in molte altre sfere, contribuisce a disegnare diversamente la distribuzione dei redditi, della ricchezza e delle opportunità”.
E ancora la Chiappero richiama gli economisti, i cittadini alle loro responsabilità. I primi dovrebbero chiedersi in quale misura i loro “modelli si adattino, siano utili a comprendere la realtà. Pur riconoscendo l’importanza e le potenzialità del mercato, dobbiamo accettare il fatto che i meccanismi che governano oggi i mercati reali sono assai lontani dalle ipotesi su come dovrebbero funzionare idealmente i mercati”. I secondi dovrebbero chiedersi più spesso“in che modo e in che misura il tema delle diseguaglianze è presente, se è presente, nelle diverse proposte politiche che si confrontano, nelle istituzioni che ci governano, nelle diverse sfere in cui le azioni politiche prendono forma e sostanza”.
In sostanza tutti dovremmo chiederci quali valori sono alla base del progetto politico che guida la classe dirigente del Paese, quale è la qualità del dibattito politico. I troppi cittadini italiani che soffrono, che vivono sulla loro pelle il peso della disuguaglianza che si trasforma in una crescita delle situazioni di povertà, di vulnerabilità e di esclusione sociale non possono più attendere.