"Abbiamo bisogno di sentirci parte di una comunità, di condividere esperienze, toccarci, abbracciarci… Viviamo e combattiamo con Internet, non dentro Internet". (Scopri di più su:
http://www.labsus.org/2015/08/come-cambia-il-ruolo-di-internet-amministrazione-condivisa/)
Alessandra ValastroEsperienze come quella della primavera araba hanno mostrato l’importanza del web per avvicinare paesi e popoli nelle rivendicazioni di libertà; ed espressioni molto abusate come e-democracy, e-governance, e-government, e-participation, ecc., hanno alluso in questi anni alle potenzialità democratizzanti del web rispetto al rapporto fra i cittadini e le istituzioni.
La c.d. partecipazione elettronica: un mito da sfatare?[1] Ma quelle stesse esperienze hanno anche confermato che la Rete è solo uno strumento – per quanto potente – di fenomeni che nascono altrove, laddove la fisicità degli uomini ne sfida quotidianamente i valori umani, sociali e politici[2] e che Internet non è di per sé garanzia di democratizzazione dell’agire pubblico né di elevazione dei popoli. L’utilizzo della Rete è e resta uno strumento al servizio di libertà e poteri che devono trovare altrove le proprie garanzie e i propri limiti, e la cui efficacia dipende dalla democraticità dei fini e delle regole che sorreggono le politiche.
Eppure, in Italia come altrove, la retorica delle virtù palingenetiche di Internet ha portato ad enfatizzare le politiche sulle infrastrutture e la digitalizzazione dei servizi, mentre le forme di inclusione e partecipazione si sono spesso ridotte ad esercizi sondaggistici dal retrogusto demagogico. Si pensi alle consultazioni telematiche pubbliche degli ultimi anni (come quella del 2014 sul progetto di riforma costituzionale); o ai nuovi movimenti che rivendicano il voto elettronico come strumento di democrazia diretta, espressioni di un’euforia plebiscitaria e antagonista che rischia di essere assai più dannosa dei mali che vorrebbe curare.
Il posto di Internet è fra le precondizioni della partecipazione
Se è vero – come andiamo da tempo sostenendo – che ciò che occorre rafforzare è piuttosto il carattere inclusivo e collaborativo delle politiche pubbliche, Internet deve allora tornare ad essere strumento al servizio delle comunità: per la migliore organizzazione dell’esercizio del potere da parte dei governanti; per l’ampliamento delle opportunità di esercizio dei diritti da parte dei governati. E la partecipazione deve poter sfruttare le potenzialità democratizzanti di Internet non per essere disinnescata entro dimensioni virtuali bensì per accrescere gli strumenti della fisicità.
Come dice Manuel Castells, “abbiamo bisogno di sentirci parte di una comunità, di condividere esperienze, toccarci, abbracciarci… Viviamo e combattiamo con Internet, non dentro Internet”[3].
Si pensi all’esperienza delle social street, ove gli abitanti di una via utilizzano i gruppi chiusi di Facebook per entrare in contatto ed avviare iniziative condivise, soprattutto a fini solidali: il social network viene utilizzato per finalità civiche, la dimensione virtuale diventa strumento per recuperare la fisicità e il contatto diretto con il territorio e gli altri suoi abitanti. La tecnologia è strumento abilitante e non soluzione dei problemi.
La Rete diventa allora una pre-condizione della partecipazione: essa deve non solo essere accessibile in senso tecnico ma anche offrire contenuti e funzionalità adeguati per consentire il confronto e la collaborazione fra i cittadini e le istituzioni. E se non vi sono regole sul livello minimo di quei contenuti e di quelle funzionalità, il confronto e la partecipazione restano un’illusione.
E’ quanto afferma chiaramente anche la Costituzione: occorrono norme che garantiscano i livelli minimi essenziali per il godimento dei diritti (art. 117). E la “partecipazione effettiva di tutti alla vita politica, economica e sociale del Paese” è un diritto, tanto che le istituzioni sono obbligate a rimuovere gli ostacoli che la impediscono (art. 3, 2° comma) e a favorire le autonome iniziative dei cittadini che intendono partecipare alla realizzazione dell’interesse generale (art. 118, ultimo comma).
Ma anche le regole non bastano, se non sorrette da una visione politica matura che orienti l’utilizzo di Internet verso la messa in comune dei saperi civici e delle capacità: lo dimostra, ad esempio, l’inefficacia delle norme sui siti internet delle amministrazioni e dei partiti politici.
Internet di nuovo al servizio delle comunità
Ma quali regole possono riuscire a liberare la propensione partecipativa di Internet dalle retoriche della demagogia e farne uno strumento civico reale? La risposta non è facile; ma gli indizi non mancano.
Certamente regole semplici, leggere e sperimentali, munite di clausole valutative che impongano il monitoraggio degli effetti prodotti e l’eventuale successiva modifica.
In secondo luogo regole condivise con i loro stessi destinatari. In un Paese in cui si manifesta da tempo grande insofferenza per l’inflazione normativa e i comandi unilaterali, il fatto che vi siano norme richieste dalla società civile deve quantomeno far pensare.
E’ il caso del
regolamento sulla cura condivisa dei beni comuni, che è spesso proposto dalle amministrazioni comunali ma ancor più spesso dalla società civile.
In primo luogo, le forme di partecipazione che vengono disciplinate sono quanto di più lontano dalla dimensione virtuale. Si tratta della collaborazione fra abitanti e amministrazioni locali per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani: una partecipazione che valorizza le capacità delle persone, e che dunque si spende negli aspetti più concreti del vivere.
In secondo luogo la disciplina ha un carattere sperimentale e procedurale: non si dice cosa fare bensì come farlo, si prevedono garanzie e procedure semplici per i cittadini attivi, se ne affrontano le ricadute organizzative per l’amministrazione. Si forniscono, cioè, i lineamenti essenziali di un modo di partecipare al governo della cosa pubblica che così esce dalla casualità del volontarismo individuale e diventa metodo. In questo quadro si può dire che Internet arrivi “dopo”, per suggellare e rinforzare gli strumenti di quel metodo.
Nel regolamento di Bologna, e in quasi tutti quelli adottati in seguito, si parla di “Innovazione digitale”, affermando che il Comune favorisce la partecipazione della comunità alla realizzazione di servizi e applicazioni per la rete civica, mettendo a disposizione spazi e infrastrutture; e si parla di “comunicazione collaborativa”, riconoscendo “nella rete civica il luogo naturale per instaurare e far crescere il rapporto di collaborazione con e tra i cittadini”, e imponendo al Comune di rendere disponibili kit di strumenti, dati e piattaforme digitali in formato aperto, tutoraggio nell’uso degli strumenti, manuali d’uso, ecc.
In seguito, la voglia e il bisogno di condividere esperienze fra le comunità che hanno intrapreso l’avventura dell’amministrazione condivisa hanno fatto il resto, portando a sollecitare la creazione di portali, forum di discussione, sedi ove scambiare buone pratiche e soluzioni replicabili.
E’ accaduto ad esempio a Terni il 26 marzo di quest’anno, nel world cafè in cui si è creata la Rete delle Amministrazioni Condivise umbre e gli amministratori presenti hanno cominciato a tracciare i contenuti del portale in corso di realizzazione; ed è successo, in modo ancora più corale,
nell’incontro dell’11 e 12 giugno a Roma, ove funzionari di tutta Italia hanno per la prima volta discusso i risvolti attuativi del regolamento, ribadendo l’importanza di un sistema di condivisione che utilizzi il web come prosecuzione duratura del confronto avviato fisicamente in quei giorni.
Come si vede, non è più questione della semplice messa a disposizione di informazioni ma di una forma di auto-mutuo aiuto a distanza fra amministrazioni e comunità di parti diverse d’Italia, un ritrovarsi e dialogare su come si è fatto e come si può fare per realizzare questo nuovo modo di governare.
Il “caso” dei regolamenti sull’amministrazione condivisa può allora essere l’indizio di un recupero della capacità della politica di generare scopi e guardare lontano: una politica che orienta i propri mezzi (tra cui Internet) alla realizzazione di quegli scopi, e che riabilita la partecipazione elettronica attribuendole il ruolo che le si addice in una democrazia matura: recuperare la forza abilitante del capitale sociale.
Note:
[1] In questi termini, da ultimo, il saggio di Paola Marsocci in F. Marcelli – P. Marsocci – M. Pietrangelo (a cura di), La rete internet come spazio di partecipazione politica.Una prospettiva giuridica, E.S., Napoli, 2015, 39ss.
[2] V. fra le altre le riflessioni di D. Rieff, La rivoluzione di Twitter non riempie la pancia, in Internazionale, 885, 18 febbraio 2011.
[3] Intervista del 6 novembre 2012,
www.tvdigitaldivide.it/tag/movimenti-sociali-internet/.