Una via di uscita. Dalle nebbie parlamentari dove alligna
una nuova normativa che va certamente approvata, ma come riforma e non mero riordino. Dai limiti di
un pensiero debole a fronte di un “sociale” che assurge sempre più a paradigma. Da
una narrazione monopolizzata da scandali e inefficienze che intacca gli elementi di valore che la pubblica opinione attribuisce al “non lucrativo”. Da
un imbarbarimento del rapporto con la Pubblica Amministrazione che retrocede sul fronte delle partnership a favore di modalità di relazione che non riconoscono le peculiarità della funzione sociale e delle economie che essa genera. (Scopri di più su:
http://www.tempi-ibridi.it/welfare-terza-societa-tempi-ibridi/#.Vc2Y5w8JMT4.facebook)
@EditormanqueSfide difficili da affrontare. Per il loro carattere epocale – sono parte di una transizione verso assetti non ben definiti – e per il fatto che mettono a nudo i limiti di una rappresentazione della società che vede un “ritorno all’ordine” delle diverse forme istituzionali, ridimensionando tutto ciò che va “fuori dagli schemi” soprattutto sul doppio versante pubblico / privato, profit / nonprofit. E così a soffrirne maggiormente sono proprio organizzazioni come le imprese sociali, invitate – invero anche al loro interno – a tornare ai posti di partenza (se non a posizioni antecedenti): dentro il terzo settore, nell’alveo della norma sui servizi sociali, addirittura abdicando alla possibilità di fare utili.
Da dove ricominciare? In un pezzo
sul Sole 24 Ore abbiamo provato a identificare ambiti dove l’impresa sociale può rilanciare il suo ruolo elaborando, in corso d’opera, una visione politico culturale per un contesto sociale ed economico scosso alle fondamenta e che assomiglia sempre meno al Paese dove queste esperienze d’impresa sono nate e hanno, in buona parte, prosperato. Non “studi di settore” su nicchie di mercato e neanche, all’opposto, “social target” di ampia portatata generalizzabili in diversi contesti, ambiti, epoche storiche. Sono quelle che comunemente si chiamano “sfide-Paese” rispetto alle quali l’impresa sociale italiana può contribuire in modo sostanziale e, insieme, rigenerare se stessa.
Tra le diverse sfide quella di costruire un welfare per la cosiddetta “terza società” è forse la principale perché chiama in causa sollecitazioni di varia natura e provenienza. Come evidenziano
le indagini di Luca Ricolfi, la terza società è il principale, e più doloroso, lascito della crisi, una nuova componente del sistema sociale. Non solo le ben conosciute società dei garantiti (dipendenti della PA e di aziende medio grandi) e del rischio (lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, commercianti, dipendenti di piccole aziende ecc.), ma anche una terza società composta da lavoratori in nero, disoccupati, lavoratori discontinui, scoraggiati. Una fetta di popolazione che fino a poco tempo fa era minoritaria, ma che oggi è “maggioranza silenziosa” (anche in termini di advocacy e rappresentanza politica) soprattutto
nelle aree del Sud Italia.
E così, a fronte di un primo welfare in ridimensionamento e di un secondo ancora allo stato di sperimentazione – comunque accomunati dal fatto di servire soprattutto la società dei garantiti – occorre pensare ad un “terzo welfare”. Complicato certamente, ma a fronte di condizioni di contesto che, pur essendo sparse ad ampio raggio, possono essere ricombinate in una nuova forma di offerta. Mestiere tipico dell’imprenditore sociale.
Il modello di servizio (e di business) è abbastanza chiaro nella sua architettura e deriva da un processo intenzionale di cross-fertilization tra sharing economy e imprenditoria nonprofit. Forse il più significativo processo di ibridazione per generare nuovi schemi di protezione sociale a favore della parte più esclusa della società. Su quale base è presto detto: 10 milioni di persone. Sono gli utenti che, secondo l’Istat, vivono situazioni di disagio a causa di malattia, disabilità, esclusione sociale, ecc. e che sono serviti da enti nonprofit. E’ una “massa critica” da far valere sia in termini di advocacy per la riallocazione delle risorse pubbliche che possono cofinanziare le attività di welfare. Ma è anche una platea di utenti che può popolare piattaforme di sharing economy per rendere accessibili servizi che – in modo diretto o indiretto – migliorano la qualità della vita e la coesione sociale. In altri termini la smart di car to go, la stanza di airb&b, i lavoretti di Tabbid, la moneta di Sardex, le social street, ecc. non sono (o non dovrebbero essere) solo per millennials, consumatori consapevoli e neoborghesia illuminata dall’innovazione sociale, ma anche protezione sociale per la terza società. Questo, peraltro, sarebbe l’indicatore migliore per riconoscere l’effettivo carattere di “condivisione” che caratterizza questa nuova economia.
Conforta che mentre si definisce il campo del confronto tra gli attori – anche in termini normativi, stante il carattere di interesse colettivo dei beni che sfida
le regolazioni più avanzate – dal basso (e dalle periferie) emergono pratiche solo in apparenza dissonanti. Come
l’utilizzo dei buoni sconto (il #couponing reso famoso anche da
trasmissioni televisive) per costruire gruppi di acquisto che si preoccupano anche di fare protezione sociale per chi vive situazioni di difficoltà. Chi l’avrebbe mai detto: dal tempio del consumismo scaturisce socialità! Non sono “cittadini attivi” orientati al sociale o “utenti dei servizi” incardinati nell’offerta del welfare istituzionale. Sono semplicemente consumatori che, facendo il loro mestiere e abilitati da tecnologie relazionali, contribuiscono a costruirsi un pezzo di welfare. In attesa di una nuova norma, di una nuova cultura e di un nuovo storytelling si può partire (anche) da qui.