Della riforma della scuola si è apparentemente parlato molto. In realtà, da un lato siamo stati esposti alla vulgata propagandistica di Renzi, condotta a suon di slogan e lavagnette, dall’altro l’opposizione alla cosiddetta Buona Scuola è stata percepita come una questione di interesse esclusivamente sindacale, a difesa di interessi di categoria. Comunque, un problema di chi nella scuola ci lavora. Non si è invece sentita (sul piano mediatico) una voce di riflessione lucida su cosa questa riforma possa comportare per chi dovrebbe stare al centro di qualunque discorso sulla scuola: gli studenti e le loro famiglie. Di questo vogliamo parlare qui. (Scopri di più su:
http://www.doppiozero.com/materiali/sala-insegnanti/una-buona-scuola-chi)
Per chi crede che la scuola abbia il compito fondamentale di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale… che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 della Costituzione) questa riforma, alla luce del suo iter parlamentare e pur tenendo conto delle modifiche intercorse, pone seri problemi sotto diversi profili: accresce la disuguaglianza, mette a rischio la partecipazione democratica e la libertà di insegnamento, e ha effetti molto dubbi sulla qualità media del sistema.
Le deleghe in bianco: una questione democratica nel metodo e nel merito
A ben leggere il
maxiemendamento approvato il 7 luglio scorso appare evidente che la vera riforma deve essere ancora scritta. Infatti, nel testo definitivo salta all’occhio la mole delle materie oggetto di delega in bianco al governo, elencate in un unico articolo (il 178) lungo oltre quattro pagine.
Ciò costituisce un problema di metodo prima ancora che di merito: usare lo strumento della delega, che non ammette discussione né consultazione degli organi preposti, su un’ampia gamma di materie, che comprendono tra le altre cose anche la riscrittura del Testo unico dell’istruzione, non lascia spazio a considerazioni positive circa l’iter democratico di questa riforma.
È vero che la legge non affronta direttamente la riforma degli organi collegiali, e che l’articolo 1 del maxiemendamento garantisce la possibilità di “partecipazione” (non meglio definita) di tali organi alle decisioni della vita scolastica. Però tale partecipazione potrà essere annullata, riformulata o contenuta con la riscrittura di alcuni articoli (8,9,10) del
Testo unico dell’istruzione che normano la partecipazione democratica alla cosa pubblica all’interno delle scuole. E qui studenti e genitori, è evidente, hanno davvero molto da perdere: i loro rappresentanti da controparte attiva possono diventare semplici figuranti. La riscrittura del Testo unico dell’istruzione è davvero un nodo delicato perché è il documento che disciplina e dà disposizioni legislative in materia di istruzione, per scuole di ogni ordine e grado.
“Senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”: i finanziamenti privati e la libertà di pensiero
Un altro elemento di forte perplessità è dato dall’incentivazione delle erogazioni liberali che permettono a soggetti privati di elargire fino a 100.000 euro a una singola istituzione scolastica. Nella situazione generale di carenza di finanziamenti pubblici le scuole da parecchi anni si adoperano per rimpinguare i fondi statali (molto spesso insufficienti per le mere spese di funzionamento), appellandosi ai contributi volontari delle famiglie, alle feste di natale e a mercatini di fine anno. Questa modalità autorganizzata e quasi “casalinga” di racimolare qualche denaro in più crea ovviamente notevoli disuguaglianze sul territorio; cosa accadrà con i finanziamenti privati – che non potranno arrivare a tutti? Come saranno scelte le le scuole a cui dare i fondi? Dovremo sperare che la scuola dei nostri figli sia baciata dalla fortuna? La scuola è un diritto fondamentale per tutti i bambini e le bambine ed è lo strumento che dovrebbe combattere disuguaglianza e discriminazione sociale. È evidente che l’entrata dei privati in modo così pervasivo non potrà che rafforzare il divario tra scuole di serie A e di serie B, dunque ci sarà chi avrà la macchina con tutti gli optional e chi quella con le ruote bucate. Un bambino di prima elementare in base a quale logica di merito dovrebbe avere l’una o l’altra?
L’entrata dei privati, oltre a mettere in evidenza che lo Stato abdica al suo ruolo rinunciando a immettere nella scuola le risorse necessarie (salvo però garantirne di crescenti alle scuole paritarie private!), pone anche un altro problema: la libertà di insegnamento e la possibilità di avere un ambiente scolastico plurale e inclusivo. Gli sponsor privati possono essere fortemente connotati politicamente, ideologicamente e religiosamente e condizionare di conseguenza programmi scolastici e metodi di insegnamento. È legittima la preoccupazione che un assetto in cui il dirigente è responsabile della redazione del Pof (Piano dell’ Offerta Formativa), di trovare gli sponsor nonché di scegliere la “squadra vincente” di insegnanti, comprometta fortemente, rispetto all’oggi, la pluralità di voci trasformando le scuole in unità autoreferenziali ed escludenti. Questo perché la “Buona Scuola” promossa dal Governo Renzi sgretola il sistema scolastico in singole unità creando oltretutto l’impressione alle famiglie di poter scegliere la scuola migliore per i loro figli! Questa è una pura illusione, almeno per quanto riguarda la scuola dell’obbligo.
Il grande inganno per le famiglie #1: la libertà di scelta
La scuola dell’obbligo, proprio perché tale, è fortemente legata al territorio affinché tutti possano accedervi senza ostacoli o incombenze. Quindi è vero che un genitore che non condividesse Pof e connotazione ideologica della propria scuola di pertinenza potrebbe in teoria scegliere un istituto in una zona limitrofa. La sceglie, ma con un’altissima probabilità, non avrà il posto perché la precedenza è giustamente dei residenti intorno a quella scuola. Quindi nella gran parte dei casi, avremmo libero mercato ma scelta obbligata!
Il grande inganno per le famiglie #2: la valutazione come strumento per una qualità migliore
Qualità, valutazione e meritocrazia sono state le parole al centro degli slogan governativi di promozione della riforma. Definire la qualità però non è affatto semplice. L’obiettivo incarnato anche nel nome Invalsi è di valutare il sistema scolastico nel suo complesso; di fatto però questa legge prevede esclusivamente la valutazione degli individui finalizzata a un meccanismo premiale. Questo (ahinoi!) va incontro al sentire diffuso che gli insegnanti non debbano essere una categoria privilegiata sottratta al giudizio, ma in realtà non garantisce alcun miglioramento della qualità dell’insegnamento. A studenti e famiglie non interessa che gli insegnanti “più bravi” ricevano dei premi stipendiali o di altro genere; a chi la scuola la frequenta interessa invece che vengano previsti dei sistemi di formazione, sostegno e controllo volti a far migliorare le capacità didattiche dei docenti “meno bravi”. E al limite che i docenti “disastrosi” possano essere allontanati. Contrariamente a quanto molti credono, nessuna di queste due cose è però affrontata dalla riforma. Al limite i docenti meno bravi verranno spostati più spesso di scuola in scuola rispetto a quelli migliori.
Ma come funziona la valutazione?
Che sia necessario un sistema di valutazione della scuola nel suo insieme per individuarne i punti deboli non v’è dubbio, ma in questa legge (art. 120-129) la valutazione è tutt’altra cosa. In ciascun istituto è previsto un Comitato di valutazione (dirigente, docenti, genitori/studenti e un membro esterno) che individuerà per proprio conto e indipendentemente, dei criteri per “misurare” la qualità dei singoli insegnanti in relazione a vari aspetti della didattica. Delegando a ogni singola scuola i criteri la discrezionalità è altissima: scuola che vai valutazione che trovi. Quale garanzia c’è sulla qualità di un docente in assenza di una valutazione omogenea e strutturata da una commissione competente? Non sarebbe toccato al Governo chiamare degli esperti a delineare delle linee guida sulle modalità e i criteri per valutare i docenti?
La concorrenza tra docenti è una buona idea?
Lo strumento che la Legge 107/2015 mette in campo per promuovere una scuola di qualità è la competizione articolata su tre livelli: la competizione tra scuole, tra insegnanti e infine, di conseguenza, tra studenti. Che la competizione tra scuole (che si gioca sul Pof e le performance degli studenti) non sia conveniente per le famiglie è chiara una volta colto il fatto che l’effettiva libertà di scelta della scuola è limitata.
Rimane da capire quali siano gli eventuali effetti positivi della competizione tra docenti. L’esperienza quotidiana di rapporto con gli insegnanti dei nostri figli (le due o tre maestre del tempo pieno o il consiglio di classe della scuola secondaria) ci rivela l’importanza della collaborazione tra tutte le figure coinvolte; e l’importanza della loro disponibilità a condividere i propri strumenti e le proprie conoscenze per realizzare al meglio il progetto educativo per una specifica classe e per ogni specifico alunno. Molto spesso la qualità è favorita dalla collegialità e dalla cooperazione. Immaginiamoci ora le conseguenze di una competizione diretta tra tutti gli insegnanti. Che ricadute ci aspettiamo che abbia sull’ambiente formativo un contesto di competizione tra adulti?
L’ultimo tassello del modello competitivo
In questo quadro è molto probabile che gli unici dati disponibili per valutare la qualità dei docenti e dunque della scuola saranno quelli relativi alle performance degli studenti, e segnatamente, i risultati dei test Invalsi (intenzionalmente non entriamo qui nel merito del dibattito sui test standardizzati).
In un contesto in cui per scarsità di risorse i test vengono somministrati dai docenti stessi (e in cui i problemi di cheating sono rilevanti), questo induce un meccanismo perverso rafforzando l’incentivo a barare.
È da notare che questa riforma non prova neanche a rifarsi ad un modello pedagogico di riferimento. Il che però non significa che non ve ne sia uno implicito, che si rivela in questa concezione di valutazione statica (ossia volta a assegnare un “bollino” anziché a rivelare i processi di miglioramento possibile) ed individualistica, basata sul sistema carota/bastone.
È difficile immaginare che il modello valutativo che si applica agli insegnanti non si ripercuota sul modello valutativo ed educativo che gli insegnanti metteranno in atto nei confronti di bambini e ragazzi.
A noi questo modello educativo non piace
Questa riforma crea problemi e non affronta le difficoltà reali e concrete che affliggono il mondo della scuola. Ci piacerebbe immaginare una riforma a partire dalla quotidianità dei bambini, dai bisogni e dalle carenze che noi conosciamo – ma anche dalle (numerose, per fortuna) esperienze positive, storie felici della scuola italiana.
Ma della riforma che vorremmo vi parliamo un’altra volta.
- Giovanna Garrone, Federica Patti, Coordinamento Genitori Torino (CooGen)