di Stefano Donati e Paola Richard Il 26 dicembre 2004 il mondo ha cambiato espressione. Mentre l'onda di paura partita dal fondo del mare si abbatteva sul paradiso terrestre e ridisegnava la linea costiera di due continenti, in Occidente le immagini del disastro hanno gelato i volti e il cibo sulle tavole imbandite a festa. Solo alle Maldive venti isole sono state inghiottite dalle onde, l'asse della Terra ha assunto una diversa inclinazione e la costa dell'isola di Sumatra si è spostata di ben 30 metri verso ovest. Il pianeta, insomma, ci ha ricordato la sua fragilità. Con un promemoria dal bilancio spaventoso e tuttora provvisorio, che supera le 280.000 vittime, senza contare le migliaia di dispersi. Una catastrofe di queste dimensioni può essere considerata "naturale"? Sugli impatti dello tsunami sulle risorse biologiche è stato detto tutto e il contrario di tutto. E c'è un motivo: «Ci troveremo di fronte a situazioni differenti, legate alla natura fisica e chimica dei materiali trasportati in mare, in dipendenza dalla natura e dall'uso delle terre emerse coinvolte, così come succede dopo un'incredibile alluvione in cui tutto viene spazzato in mare» spiega Stefano Cataudella, professore di Ecologia applicata e specialista in ittiologia e risorse ittiche presso l'Università di Roma Tor Vergata. L'oceano che si comporta come pattumiera non è un fatto originale: dai continenti ogni giorno arriva di tutto e la raccolta dei rifiuti è uno dei servizi che i mari rendono alle terre, con costi futuri oggi incalcolabili. «Questo non vuol dire che ci troviamo di fronte a un fatto abituale - prosegue Cataudella - lo tsunami dello scorso dicembre è una catastrofe di dimensioni epocali che si aggiunge a una condizione cronica che si sta aggravando, con il tempo, a livello globale». Il problema comunque non sembra tanto legato alle profondità marine, quanto alla devastazione lungo la costa. Le comunità e i villaggi di pescatori, oltre alle gravissime perdite di vite umane, si trovano senza mezzi di produzione. «I pescatori hanno sempre e ovunque avuto rispetto per il mare - sottolinea il professor Cataudella - In questo caso, però, è successo qualcosa di talmente imponente da generare un panico diffuso. È cultura collettiva, tra gente di mare, che il pericolo finisca una volta scesi a terra, ma in questo caso il mare ha sconvolto la terraferma». È di fondamentale importanza che i sopravvissuti riprendano la propria vita cercando di recuperare la loro storia, cultura e identità anche attraverso il lavoro, che in questi casi si identifica con il contesto sociale della propria gente. «Si tratta generalmente di forme di piccola pesca che si sono evolute caratterizzando intere comunità costiere e che resistono ai processi di modernizzazione selvaggia, pur in un quadro di mezzi di produzione e di mercati cambiati - conclude Cataudella - Si dovrà ricominciare dai pescatori come soggetti di una società che deve ricostruirsi, più che come semplici operatori di un settore economico. Sarà necessario identificare la domanda di ciò che serve non solo sul piano dell'utilità, ma anche su quello di valori di altra natura come la cultura, la struttura sociale, le conoscenze tradizionali, senza correre il rischio che l'onda si porti via, insieme alle vite, le identità che una ricostruzione disattenta potrebbe cancellare». A proposito dei rischi legati alla perdita di identità umana e culturale delle popolazioni colpite, sono da più parti citati i casi di comunità rurali che ancora conservano un rispetto naturale delle zone a rischio. Dove la tradizione naturalistica ancestrale, insomma, dissuade gli uomini dall'insediarsi in alcune aree, tutelandoli dagli sconvolgimenti geologici. È interessante, ad esempio, il caso delle tribù aborigene delle Isole Andamane, che dividono il proprio territorio con importanti insediamenti militari. Malgrado il maremoto si sia abbattuto sull'arcipelago con tutta la sua furia distruttrice, tra le popolazioni aborigene, che tramandano la memoria storica dei fenomeni naturali, si sono registrate poche vittime. Al contrario, la struttura organizzata dei militari ha contato decine e decine di morti. Anche in Bangladesh, la piana deltizia del Gange, bassa di quota e senza vegetazione, è stata invasa dallo tsunami. Eppure si sono registrati solo casi sporadici di vittime, perché i centri abitati si trovano all'interno della costa e le comunità contadine non colonizzano le aree a quote più basse. Come noto, il disastro è stato più accentuato nelle aree in cui la foresta di mangrovie è stata distrutta per fare posto a nuovi insediamenti turistici: i più, purtroppo, ignorano che il termine «mangrovia» in lingua tamil significa «pianta che difende dal mare». Le foreste di mangrovie coprono un'estensione mondiale di circa 15 milioni di ettari, di cui quasi la metà si trova nei paesi del Sudest asiatico colpiti dal maremoto. «Il ruolo di queste piante nella protezione delle coste dalle onde, dal vento e dalle correnti è nota - spiega Loyche Wilkie, esperta della Fao in materia - ma la capacità di queste "cinture verdi" di proteggere e salvare vite umane in occasione di tsunami devastanti come quello recente dipende da diversi fattori». Se una vasta area di mangrovie può ridurre molti danni, spiega Wilkie, «quando le fasce verdi sono più sottili gli effetti positivi possono essere limitati, e in alcuni casi addirittura negativi». La Fao segnala diversi casi in cui le mangrovie hanno svolto una funzione protettiva: ad esempio in prossimità della foresta di Pichavaram, nel Tamil Nadu, in India, dove ha rallentato l'onda salvando la vita di circa 1.700 persone. Ma quando parte dell'intrico di radici e piante è già stato danneggiato, le mangrovie possono essere scaraventate violentemente a terra causando gravi danni a cose e persone. Claudio Conti è un botanico che da 4 anni portava avanti un progetto di studio e conservazione di una zona estuariale di mangrovie sulla piccola isola di Ko Phra Thong, nel sud della Thailandia. La sua base di ricerca era collocata all'interno del centro di recupero tartarughe marine Naucrates. Il 26 dicembre si è salvato, assieme alla collega biologa Monica Aureggi, scappando di corsa dall'onda verso una collina. Non altrettanto fortunate sono state le loro collaboratrici Lisa Jones e Rebecca Clark, trasportate dalle onde nel mare delle Andamane, così come tutte le attrezzature a terra. Ancora sotto shock per la tragedia, Conti racconta che «le piante in prima linea vicino alla costa sono state completamente spazzate via. Anche quelle enormi». Per quelle rimaste il secondo grosso problema sembra legato all'accumulo di sabbia e fango portato dalle onde. «Intorno a noi c'era solo acqua e abbiamo assistito a un trasporto di sedimenti pauroso - spiega Conti - Dal poco che ho potuto valutare, posso dire che in alcune zone si sono accumulati fino a 60 centimetri di deposito. Il danno potrebbe quindi essere maggiore a lungo termine: le caratteristiche radici aeree delle piante sono rimaste interrate e soffriranno sicuramente per l'impossibilità di compiere i normali scambi gassosi». Le soluzioni per la mitigazione del rischio tsunami esistono e sono sperimentate in tutta l'area del Pacifico, in particolare alle Hawaii. A partire dall'introduzione di norme di sicurezza per l'edilizia lungo la fascia costiera, che prevedano la possibilità di edificare a quote assegnate sul livello del mare proteggendo e non modificando la configurazione geomorfologica e la biosfera originale. Nelle aree caratterizzate da limiti geomorfologici e topografici (aree basse), come le Maldive e gli atolli corallini, la soluzione più idonea è ricorrere a strutture piloty (edifici realizzati su pilastri con il piano basso non adibito alle persone, sul modello delle palafitte). La convivenza tra lo sviluppo turistico e le aree con rischi naturali è quindi possibile, è però necessario realizzare un network di monitoraggio sismologico e ondametrico, con procedure di allarme. Un ruolo fondamentale per le politiche di protezione civile spetta infine all'educazione e all'informazione di massa sulla natura dei fenomeni, i comportamenti da adottare e le normative urbanistiche. Per sopravvivere su questo fragile pianeta bisogna innanzitutto conoscerlo, e rispettarlo più a fondo. La Nuova Ecologia, 26 gennaio 2005

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