Negli ultimi tempi si parla molto della Grecia, dei suoi problemi e delle soluzioni adatte a risolverli. Si equiparano, irrispettosamente, i greci alle cicale, li si descrive come un popolo di scansafatiche refrattario ai sacrifici necessari per onorare gli impegni presi con i creditori: ma siamo sicuri che questa sia effettivamente la verità, o piuttosto non sia una lettura superficiale e affrettata di una situazione assai più complessa? (Leggi di più su:
http://www.acli.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=10089:tagli-e-sacrifici-cosa-puo-insegnarci-l-esperienza-greca&Itemid=781#ixzz3g81VU9lo)
Scritto da Giuseppe Marchese e David Recchia
Da ben cinque anni la Grecia è sottoposta alle “cure” della cosiddetta Troika (Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale e Commissione europea). Il risultato è sotto gli occhi di tutti, e consiste sostanzialmente in un fallimento: il rapporto debito/Pil anziché diminuire ha raggiunto la straordinaria cifra di 172% (International Monetary Fund, Economic Outlook Economic, 2015). Il Prodotto Interno Lordo del 2014 supera di poco l’80% di quello registrato nel 2010: esso ha subito una riduzione pari a circa il 20% in pochissimi anni (Eurostat, 2015). I risultati ottenuti dalle politiche economiche recenti, dunque, descrivono una situazione tutt’altro che rosea, molto peggiore di quella prevista dai programmi di risanamento varati in più fasi nell’ultimo lustro. Ma non è andata sempre così male, almeno dal punto di vista nominale.
Secondo l’
Economic Adjustment Programme for Greece del 2010, la Grecia, immediatamente prima dei “terribili cinque” (2010-2015), ha vissuto una fase di crescita economica sostenuta, superiore alla media europea, che però, paradossalmente, sembra aver creato più problemi che benefici al delicato equilibrio dei conti. L’anomala velocità con cui l’economia ellenica si è sviluppata, infatti, era dovuta alla crescita degli investimenti in edilizia residenziale, alla possibilità di accesso al credito a buon mercato e, soprattutto, all’aumento dei salari (pubblici in particolare), che ha eroso la competitività esterna, aumentando contemporaneamente le spese a carico dello Stato. Un’alta crescita della domanda interna, il deterioramento della competitività esterna dovuto agli eccessivi costi del lavoro e la crisi internazionale hanno fatto salire il disavanzo greco al 14% del Pil nel 2008. Questa situazione generò, nel 2009, una notevole turbolenza: aumentarono gli interessi sui titoli di Stato; contestualmente, le agenzie ne ridussero il rating e, per finire, fu aperta una "Procedura per deficit eccessivo". Di qui la necessità di risanamento dei conti, che si è tradotta concretamente nella richiesta di assistenza finanziaria internazionale alla Banca centrale europea, al Fondo monetario internazionale e alla Commissione europea.
Secondo i burocrati europei, per far tornare in equilibrio il sistema, erano necessari alcuni correttivi: tra questi, in particolare, le cosiddette riforme strutturali. Si tratta di misure che agiscono in più settori (il mercato del lavoro, dei prodotti e dei servizi) che avrebbero lo scopo di migliorare la capacità di crescita, di adattamento e la produttività. Nel mirino della Troika, dunque, è finito anche il lavoro. Esso era considerato un mercato troppo rigido, che doveva essere modificato, cioè reso più flessibile, al fine di ottenere effetti positivi sulla competitività. In particolare nelle previsioni dei burocrati europei la riforma avrebbe:
- generato maggiore gettito grazie alla riduzione del lavoro nero o irregolare;
- contenuto la pressione salariale che riduce la competitività esterna;
- consentito un più facile accesso ai giovani e alle donne al lavoro;
- aumentato il numero di contratti a tempo indeterminato a scapito di quelli temporanei.
Al fine di raggiungere gli obiettivi fissati dall’Europa, dunque, Atene mise in atto un programma di risanamento che dura di fatto da 5 anni. Il punto di partenza fu proprio la riforma del lavoro, che assieme ad altri numerosi e drammatici provvedimenti costituisce la leva maggiormente usata dagli ellenici (e non solo) in questi anni: già nel febbraio del 2010 fu attuato il blocco delle assunzioni e, nel settore pubblico, gli straordinari furono ridotti del 10%. A marzo venne approvata la legge di Protezione economica che prevedeva tagli agli stipendi pubblici e privati (-7%) e la riduzione dei benefit (ad esempio, quelli natalizi). In seguito, furono varati ulteriori provvedimenti volti a migliorare la competitività esterna: fu effettuato un altro taglio dell’8% agli stipendi pubblici, fu inserito il limite a 500 euro delle tredicesime e quattordicesime mensilità. Inoltre, videro la luce norme che resero i licenziamenti più facili. Nel 2011 e nel 2012 l’approccio non mutò: i lavoratori furono chiamati a “offrire” di nuovo il loro contributo in nome della competitività: riduzione del 20% degli stipendi previsti dai contratti nazionali dei lavoratori con scarsa esperienza, e, ancora, taglio del salario minimo (-22%), riduzione dei posti nel settore pubblico, ulteriore semplificazioni in materia di licenziamenti.
Le misure volte a “modernizzare” il mercato del lavoro imposte dalla Troika sono state applicate e alcuni risultati ritenuti importanti sono stati raggiunti. Secondo un documento pubblicato nell’aprile del 2014 sul sito web della Commissione europea dal titolo The Second Economic Adjustment Programme for Greece, i costi del lavoro per unità sono diminuiti del -13,7% nel periodo 2009-2012; inoltre, dal 2009 al 2013 il numero di dipendenti del settore pubblico è passato da circa 942.625 a circa 675.530 unità. Le entrate pubbliche sono aumentate di 2 punti percentuali in breve tempo, mentre la spesa pubblica è scesa dal 54% del Pil del 2011 al 49% del 2014 (Eurostat, 2015). Per concludere l’Eurostat certifica che i lavoratori greci, con circa 42 ore settimanali medie, sono quelli che lavorano di più in Europa, eccezion fatta per i lavoratori turchi (47,7 ore settimanali). Ciò nonostante, ad oggi, la situazione non sembra essere migliorata; anzi, l’unico risultato raggiunto sul piano del lavoro consiste proprio nel peggioramento delle condizioni generali dei lavoratori: dal 2010 l’occupazione ha registrato una decrescita. Negli ultimi anni sono stati registrati costanti decrementi del tasso d’occupazione: -2,7% nel 2010, -6,9% nel 2011, -7,8% nel 2012, -3,8% nel 2013 (Eurostat, 2015). Nel 2013 il tasso d’occupazione greco era pari al 43,3%, mentre la media europea (Ue a 28) era 62,9%. Sempre nello stesso periodo, la disoccupazione colpiva quasi un greco su tre (27,9%) a differenza della media europea che invece si attestava a 1 su 10.
Oggi in Grecia la disoccupazione colpisce soprattutto le donne (31,3% contro la media europea Ue28 del 10,8%) e i giovani: il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) supera di ben 35 punti percentuali il valore medio europeo (58,3% contro il 23,3%). Inoltre, questa piaga sociale non sembra essere transitoria: ben il 67,5% dei disoccupati greci sono di lunga durata, contro il 47,5% della media Ue28. Anche quando lo si affronta dal punto di vista delle famiglie il problema non cambia: le persone di età compresa tra i 0 e i 59 anni che vivono in nuclei familiari con bassissima intensità di lavoro sono passati dal 7,6% del 2010 al 17,2% del 2014. Infine la disuguaglianza tra i redditi familiari è ormai un fenomeno molto diffuso: l’indice di Gini in Grecia è tra i più alti d’Europa (0,344 contro 0,305 della media europea, Istat 2015).
Insomma, a giudicare dai dati commentati in questo articolo sembra che in questi giorni ci sia tanto rumore per nulla: i greci stanno già facendo i sacrifici richiesti dall’Europa, ma i risultati sono deludenti e per alcuni versi dannosi. E pensare che le ricette economiche imposte dalla Troika furono criticate anche dagli stessi industriali greci per i quali il problema non risiedeva nel costo del lavoro e neanche nei lavoratori (The Economic Adjustment Programme for Greece – 2010).