Domani, 9 luglio ricorrono 25 anni dall’entrata in vigore della Legge n. 185 che nel 1990 ha introdotto nel nostro paese “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”. Per l’occasione la Rete Italiana per il Disarmo promuove domani 9 luglio alle 13 in piazza Montecitorio a Roma un “sit-in informativo” e alle 14 una conferenza stampa
presso la Sala stampa della Camera dei Deputati (Via della Missione 4)
per presentare dati e analisi sulle esportazioni italiane di sistemi
militari e soprattutto per denunciare la costante perdita di trasparenza avvenuta negli ultimi anni.
La
legge sulle esportazioni di armamenti fu fortemente richiesta da ampi
settori della società civile e dell’associazionismo laico e cattolico i
quali, già a partire dagli anni Ottanta, denunciarono i numerosi
traffici di armi del nostro paese promuovendo la mobilitazione “Contro i mercanti di morte”:
erano gli anni in cui l’Italia vendeva indifferentemente armamenti e
mine antipersona a paesi in conflitto come Iran e Iran ed esportava
componenti di sistemi militari a nazioni, come il Sudafrica
dell’apartheid, sottoposte ad embargo da parte dell’Onu o a paesi ai
quali contemporaneamente inviava “aiuti allo sviluppo”.
LA LEGGE N. 185 DEL 9 LUGLIO DEL 1990
La Legge n. 185 del 9 luglio 1990 (qui il testo in .pdf attualmente in vigore) si caratterizza per tre aspetti:
- innanzitutto stabilisce che le esportazioni di armamenti devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia e che vanno regolamentate dallo Stato «secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 1)
elencando una precisa serie di divieti (si veda più avanti);
- in secondo luogo, ha introdotto un sistema di controlli
da parte del governo, prevedendo specifiche procedure di rilascio delle
autorizzazioni prima della vendita e modalità di controllo sulla
destinazione finale degli armamenti;
- infine, richiede al governo di inviare una dettagliata informazione al parlamento attraverso una Relazione annuale
predisposta dal Presidente del Consiglio dei Ministri che comprenda le
relazioni (allegati) dei vari ministeri a cui sono affidate diverse
competenze in materia di esportazioni di armamenti. (art. 5).
La Legge, inoltre, ha esplicitato una serie di divieti alle esportazioni di armamenti.
Queste esportazioni sono vietate quando «sono in contrasto con la
Costituzione, con gli impegni internazionali dell’Italia, con gli
accordi concernenti la non proliferazione e con i fondamentali interessi
della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del
mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando mancano
adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali di
armamento» (art. 1, c. 5). Le esportazioni di armamenti sono inoltre vietate verso i paesi in stato di conflitto armato,
in contrasto con i principi dell'articolo 51 della Carta dell’Onu;
verso paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11
della Costituzione; verso paesi nei cui confronti siano in vigore forme
di embargo totale o parziale delle forniture di armi da parte delle
organizzazioni internazionali (Onu, UE, OSCE); verso i governi dei paesi
che sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani accertate
dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio
d’Europa e verso i paesi che, ricevendo dall’Italia aiuti, destinano al
proprio bilancio militare risorse eccedenti le esigenze della difesa
(art. 1, c. 6).
ARMI ITALIANE IN (QUASI) TUTTO IL MONDO
Non
è possibile nello spazio di questo articolo analizzare in dettaglio le
esportazioni italiane di armamenti fatte nel corso di questi 25 anni.
Numerose informazioni si possono trovare nei miei articoli pubblicati in
oltre dieci anni sul sito Unimondo nelle guide “Armamenti”, “Armi leggere” e “Finanza e armi” e soprattutto nei miei studi per l’Osservatorio OPAL di Brescia e per l’Osservatorio di IRES Toscana.
Sulla base delle informazioni riportate nelle Relazioni governative è
però possibile fare qualche ulteriore rilievo sulle esportazioni
italiane di armamenti e svolgere alcune considerazioni sull’applicazione
della Legge n.185/1990.
Innanzitutto una semplice domanda:
l’esportazione dall’Italia di armamenti è stata effettuata dai vari
governi con rigore? A giudicare dai numeri è lecito sollevare più di
qualche dubbio. In questi 25 anni, infatti, i sistemi militari italiani
sono stati esportati a ben 123 nazioni, tra cui alle forze amate di regimi autoritari di diversi paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto, la Libia, la Siria, Kazakistan e Turkmenistan, a paesi in conflitto come India, Pakistan, Israele ma anche la stessa Turchia, fino a paesi con un indice di sviluppo umano basso come il Ciad,
l’Eritrea e la Nigeria. Che tipo di controlli siano stati messi in atto
sull’utilizzo da parte dei destinatari finali non è però dato di
sapere.
Nel corso di questo 25 anni sono state autorizzate esportazioni dall’Italia, in valori costanti, per oltre 54 miliardi di euro e consegnati armamenti per più di 36 miliardi con un trend decisamente crescente nell’ultimo decennio (Figura 1). In particolare, più della metà (il 50,3%) delle esportazioni ha riguardato paesi al di fuori delle principali alleanze politico-militari dell’Italia e cioè i paesi non appartenenti all’UE o alla Nato:
un dato preoccupante se si considera che – secondo la legge 185/1990 –
le esportazioni di armamenti «devono essere conformi alla politica
estera e di difesa dell’Italia» (art. 1).
Ma ancora più preoccupanti sono le zone geopolitiche di destinazione (Figura 2): se primeggiano i paesi dell’UE (più di 19,4 miliardi di euro pari al 35,9%), sono però di assoluto rilievo anche le autorizzazioni per esportazioni di sistemi militari verso le aree di maggior conflittualità del mondo come i paesi del Medio Oriente e Nord Africa (MENA) che nell’insieme superano i 12,5 miliardi di euro (23,2%) e dell’Asia (8,3 miliardi pari al 15,4%). Ai paesi del Nord America sono stati esportati armamenti per 5 miliardi (9,3%) mentre ai Paesi europei non-Ue
(tra cui la Turchia) per oltre 3,8 miliardi (7,1%). Minori, ma non
irrilevanti, anche le autorizzazioni che riguardano i paesi dell’America Latina
(2,4 miliardi pari al 4,5%), dell’Africa subsahariana (oltre 1,3
miliardi pari al 2,4%), tra cui soprattutto Sudafrica e Nigeria, e
dell’Oceania (1,1 miliardi pari al 2,1%). E proprio verso le zone di
maggior tensione del mondo, come i paesi del Medio Oriente e del Nord
Africa, sono andate crescendo negli ultimi anni le esportazioni: il
grafici 3, 4 e 5 lo mostrano con chiarezza.
Tra i singoli paesi destinatari di armamenti italiani,
ai primi posti figurano due tra i principali alleati del nostro paese
come gli Stati Uniti (4,5 miliardi di euro) e il Regno Unito (4
miliardi), ma non si dovrebbero sottovalutare le consistenti
esportazioni a due tra i regimi più autoritari del pianeta, l’Arabia
Saudita (3,9 miliardi) e gli Emirati Arabi Uniti (3,2 miliardi) verso i
quali le esportazioni di sistemi militari sono andate crescendo
soprattutto negli ultimi anni. E non andrebbero dimenticate le criticità
interne e l’instabilità regionale anche di altri paesi destinatari come
la Turchia (2,7 miliardi), l’India (1,6 miliardi) e il Pakistan (1,2
miliardi).
INFORMAZIONI SEMPRE MENO TRASPARENTI E POCHI CONTROLLI
I
dati quantitativi dell’export di armamenti offrono importanti
indicazioni per esaminare la politica esportativa adottata in questi
anni dai vari governi. Ma per verificare la corretta attuazione della
prescrizioni della legge occorrerebbe un’analisi dettagliata degli
specifici sistemi d’armamento esportati dall’Italia nei vari paesi. E’
proprio questa verifica che – come ho già segnalato – nel corso degli anni è diventata sempre più difficile tanto da renderla oggi praticamente impossibile.
Mentre, infatti, le prime Relazioni consegnate al Parlamento
riportavano con precisione, e in un chiaro quadro sinottico, il sistema
d’arma esportato per quantità e valore, la ditta produttrice e il paese
destinatario, nel corso degli anni queste informazioni sono state
scorporate in una serie di tabelle che oggi non permettono più di
conoscere le armi effettivamente esportate verso i diversi paesi
acquirenti.
Inoltre nel corso degli ultimi anni è stato reso impossibile conoscere le singole operazioni svolte dagli istituti di credito: un fatto che ha favorito soprattutto i gruppi bancari esteri – come BNP Paribas e Deutsche Bank – che, a differenza di gran parte delle banche italiane, non hanno adottato politiche di responsabilità sociale riguardo ai finanziamenti all’industria militare e ai servizi per esportazioni di armi.
Nel contempo è venuta meno anche l’attività di controllo del Parlamento. Dopo anni di pressioni da parte della Rete italiana per il Disarmo,
lo scorso febbraio le competenti commissioni della Camera sono tornate
ad esaminare la Relazione governativa: ma la seduta è durata meno di
un’ora e al momento non si ha notizia di ulteriori iniziative in
Parlamento.
RIPRENDERE LA MOBILITAZIONE
E’ pertanto
quanto mai urgente che le associazioni che negli anni Ottanta chiesero
con forza una legge rigorosa e trasparente tornino a mettere in agenda
il controllo delle esportazioni di armamenti. Ciò è reso ancor più necessario dall’attuale contesto di forte instabilità internazionale: il
recente ampio incremento di esportazioni di sistemi militari
soprattutto verso i paesi in zone di conflitto, a regimi autoritari, a
nazioni indebitate che spendono ampie risorse in armamenti e alle forze
armate di governi noti per le gravi e reiterate violazioni dei diritti
umani sono elementi che non dovrebbero sfuggire alle associazioni
impegnate nella promozione della pace, dei diritti umani e nella
cooperazione internazionale. E’ necessario, soprattutto, tornare ad
interpellare con forza le rappresentanze politiche ed in primo luogo il
governo ed il parlamento. L’anniversario della legge n. 185 del 1990
deve perciò diventare l’occasione per un rinnovato impegno per il
controllo “rigoroso e trasparente” delle esportazioni italiane di armi.
Giorgio Beretta
giorgio.beretta@unimondo.org