Perché in Italia tutto ciò che fa il pubblico, forse ad eccezione della sanità, finisce per costare molto di più rispetto agli altri Paesi e ha una qualità nettamente inferiore? L’assistenza non fa eccezione; ingoia una voragine di soldi e non produce un reale riequilibrio tra i diversi ceti sociali. Vediamo perché... (Scopri di più su:
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Piero Bargellini
Perché in Italia tutto ciò che fa il pubblico, forse ad eccezione della sanità, finisce per costare molto di più rispetto agli altri Paesi e ha una qualità nettamente inferiore? L’assistenza non fa eccezione; ingoia una voragine di soldi e non produce un reale riequilibrio tra i diversi ceti sociali. Vediamo perché.
In Italia l’assistenza alle fasce più bisognose (un settore del più ampio welfare) soffre di una malattia incurabile e di due malattie genetiche.
La malattia incurabile è rappresentata dal macchina burocratico-amministrativa che non essendo legata a nessun obbiettivo reale da raggiungere e a nessun controllo di merito consente uno sperpero di denaro pubblico praticamente “a vita” del beneficiario. E’ sufficiente rientrare negli elenchi dei bisognosi e poi più nessuno è capace di togliere il sussidio.
L’assistenza è nei fatti svincolata da ogni raggiungimento di obbiettivo, costituito dal superamento della condizione di indigenza e non è legato ad alcuno sforzo del singolo per superare la condizione di assistito.
Compito dello Stato non è quello di elargire dei “piccoli vitalizi” a cittadini bisognosi, ma quello di sopperire temporaneamente a stati di bisogno; è dunque essenziale il contributo attivo del cittadino stesso per uscire dal suo stato di indigenza.
Occorre riaffermare con forza il principio della responsabilità individuale di fronte alla società.
Così come ognuno di noi sarà chiamo di fronte a Padre a rendere conto delle proprie azioni, altrettanto ognuno deve essere chiamato a rendere conto di fronte ai suoi simili. Troppo spesso noi cattolici abbiamo messo in secondo piano questo principio basilare della nostra Fede e del nostro vivere civile e abbiamo concesso troppo spazio ad una concezione della carità che escludeva questo principio.
Tutto ciò introduce le malattie genetiche di cui soffre l’assistenza.
La tradizione cristiana, abbandonato il principio di responsabilità individuale, ha assunto solo il versante, in fondo egoistico, della carità a tutti i costi.
“Devo fare del bene”, non importa a chi lo faccio e come lo faccio, ma basta che lo faccia; questo “in nuce” il ragionamento che fanno molti cristiani della domenica. Al contrario la Chiesa stessa, nelle sue istituzioni preposte allo scopo, distingue spesso il bisognoso da chi fa finta di esserlo.
Le adozioni a distanza, le elemosine, le donazioni con il cellulare, spesso non sono altro che l’acquiescenza della coscienza; è un mettersi l’animo in pace credendo di aver fatto del bene. In tutto ciò non c’è alcun coinvolgimento personale, nessuno si mette in gioco, non c’è nessuno intimo cambiamento per l’incontro con il Cristo che tende la mano al fratello.
Se trasportiamo questo ragionamento allo stadio superiore della convivenza sociale, questo atteggiamento comporta che si misuri il grado di assistenza da quante risorse si impiegano e basta, senza andare a vedere realmente quale impatto hanno e quali risultati producono.
L’altra malattia genetica è quella che deriva dal pensiero socialista, anche questo malamente inteso. “Siccome si lotta per i poveri, quanto più poveri sono tanto più hanno ragione”; anche in questo caso è il dato meramente quantitativo che prevale e non i risultati che ottiene.
Come per l’affido familiare il principio fondamentale dell’assistenza deve essere quello della temporaneità.
Lo Stato, in collaborazione con gli altri Enti preposti, si prende cura di un cittadino indigente per un certo periodo di tempo prefissato e che varia da caso a caso; stabilisce un percorso fatto di sussidi, aiuti materiali, corsi professionali di reinserimento al lavoro, cure mediche specialistiche, e fissa gli obbiettivi intermedi e finali. Allo scadere del periodo ci deve essere una verifica e il soggetto deve avere la capacità di camminare con le proprie gambe, per il principio di responsabilità personale di cui parlavamo all’inizio.
Siamo consapevoli che tale percorso sarà più costoso e faticoso di un assegno mensile regalato, ma per il principio della temporaneità, consente di estendere le risorse a più soggetti e soprattutto a verificare i risultati.
Chi è in grado oggi di riscoprire e imporre il valore della responsabilità individuale? Il pensiero laico si è dissolto in una burocrazia inconcludente e quello socialista è rimasto sotto le macerie del muro di Berlino. E’ compito del pensiero cattolico sottolineare con forza il principio di responsabilità perché esso è parte essenziale del cattolicesimo. Siamo persone, non individui, e per questo motivo ognuno è chiamato a rispondere delle proprie azioni di fronte a Dio, come pure di fronte agli uomini.
L’esempio più semplice è l’assistenza ai nomadi; troppo spesso si è costruito e finanziato campi senza che ci sia stata una reale contropartita da parte loro. La comunità è disposta a investire in questo tipo di sociale, ma vuole avere in cambio delle contropartite dai nomadi stessi. Mandano i figli a scuola? Cessano di chiedere l’elemosina con i piccoli in braccio? Il livello igienico è sufficiente? Si impegnano a procurarsi un lavoro che li renda autonomi? Riescono a tenere in ordine e pulito il territorio in cui vivono? Tutto ciò costa fatica agli impiegati pubblici e alla politica che si deve assumere le sue responsabilità: in fondo è più comodo pagare “sine die” la bolletta della luce e condannarli a rimanere in eterno ai margini della città sopportando anche qualche furtarello.