Verso una gestione condivisa di beni e servizi di pubblica utilità. (Scopri di più su: http://www.labsus.org/2015/06/economia-del-bene-comune-e-gestione-dei-servizi-di-pubblica-utilita/)

Michela Passalacqua

Quale ruolo ha la comunità nel modello di sviluppo offerto dal capitalismo occidentale? Ogni fabbrica dismessa è la “risulta” di una certa specie di economia di mercato, che chiamiamo capitalismo occidentale, diffusosi in questa parte del mondo nel corso del XIX secolo. L’attore principale degli scambi di mercato in cui si realizza simile modello di sviluppo è la società di capitali, la quale svolge attività economica, di norma a fine di lucro (salvo espressa deroga statutaria) e all’insegna dell’efficienza, cioè del raggiungimento degli obiettivi minimizzando i costi e le risorse impiegate.

Ma siamo davvero certi che l’efficienza sia l’unico criterio di giudizio per valutare un’attività? Abbiamo dati empirici a conferma che la crescita incrementi il benessere delle persone? In realtà abbiamo elementi a sostegno dell’esatto opposto.

Ulteriore tratto tipico dell’agire delle società di capitali è che le comunità ne restano estranee, nel senso che ne rimangono “al di fuori”.

Già la Costituzione repubblicana del 1948 individua, all’art. 43, due tipologie di comunità chiamate a svolgere attività economiche in luogo delle società commerciali: le comunità di lavoratori e le comunità di utenti, potenziali assegnatarie della gestione di servizi pubblici essenziali, quali l’erogazione dell’acqua e dell’igiene urbana connessa al ciclo dei rifiuti.

Ebbene, nell’operatività delle società di capitali, i lavoratori, così come i consumatori-utenti (a seconda della tipologia dell’attività svolta dall’entità societaria), sono soggetti esterni, che subiscono le decisioni dell’impresa, quali meri destinatari. I processi decisionali sono, infatti, dominati dagli interni, cioè gli azionisti, detentori della proprietà.

L’impresa capitalistica deve infatti univocamente ricercare il valore per l’azionista (il c.d. fair value). Se allora questo diviene il principale compito – o addirittura l’unico compito – dell’impresa, quando l’azionista ha raggiunto la massima soddisfazione possibile alle contingenti condizioni di mercato, si chiami Fiat, Vaccari o Olivetti, l’impresa for profit può finire la sua missione e lasciare un vuoto, che è stato definito in sociologia “spaesamento” (l’espressione è di G. Borelli, La comunità spaesata. Quattordio, la parabola di un paese industriale, Roma, Contrasto, 2015), a parere di chi scrive da intendersi, in ossequio all’etimologia della parola, come mancanza del paese: l’assenza prende così il posto del villaggio industriale. La massima tensione verso la crescita non genera benessere. Da qui le problematiche giuridiche, economiche, ma anche sociologiche da affrontare per superare tale disagio e coinvolgere i cittadini nella “rigenerazione”/riappropriazione dei luoghi.


Il ruolo centrale delle comunità nell’economia del bene comune

È ormai noto che il mercato, in cui si radica il modello di sviluppo capitalistico di cui si è detto sopra, non sia un luogo naturale, ovvero, un Eden preesistente al diritto. Il mercato, infatti, non esiste senza regole del gioco: norme giuridiche a disciplina di una partita in cui si consuma lo scambio di beni o servizi dietro il pagamento di un prezzo.

In quest’ottica, l’economia sociale e solidale non rappresenta una fuga dall’economia o dal mercato, ma semplicemente la sottoposizione del mercato a regole giuridiche diverse, nel senso di alternative rispetto a quelle che si applicano all’economia capitalistica dove gli operatori agiscono – tendenzialmente – per fine di lucro.

L’economia sociale e solidale mira al perseguimento del bene comune e non solo allo scambio (perpetrato dagli operatori economici) e alla redistribuzione (garantita – almeno in teoria – dallo Stato). Detto raggiungimento del bene comune è rimesso all’operatività dei principi di reciprocità e democrazia.

La reciprocità implica che un soggetto agisca a favore di un altro non per la pretesa di una ricompensa ma per l’aspettativa che anche un altro soggetto in futuro agisca a suo favore, direttamente, o indirettamente, cioè agendo a favore di quello stesso interesse comune.

Inoltre, l’economia sociale s’incentra sul paradigma della democrazia. Mentre il settore for profit è fondato sullo schema proprietà/azionista/decisore e manager/agente/esecutore, nel quale i cittadini consumatori diventano un tutt’uno, meri destinatari esterni di scelte cui non partecipano, l’economia del bene comune mira, invece, al coinvolgimento dei lavoratori e dei beneficiari dell’attività svolta (in genere utenti dei servizi), i quali sono chiamati a gestire insieme, dall’interno.

Si pensi, ad esempio, come questo nuovo canone di sviluppo economico proteso al bene comune, possa venire ben applicato nella gestione del settore dei rifiuti, ed in specie, nell’ambito dell’attività di raccolta differenziata, dove, al contrario, i più – Unione europea in testa – propinano il differente modello dell’economia circolare, che non a caso conosce il supporto entusiastico di importanti società multinazionali. L’economia circolare è incentrata sulla riformulazione dei processi di produzione in modo da assicurare il minimo scarto, attraverso il costante riutilizzo e reintroduzione “circolare” delle materie nei processi produttivi: “i rifiuti di qualcuno diventano, così, le risorse di qualcun altro”.

Simile modello resta quindi ancora una volta incentrato esclusivamente su ruolo e potere decisionale determinante delle imprese, ispirate al profitto e protese ad educare i consumatori ad accettare le nuove tipologie di prodotti.

Proprio questo aspetto genera forti perplessità, rendendo attuale la necessità di riscoprire il ruolo delle istituzioni pubbliche, soprattutto degli enti locali, per coinvolgere i portatori d’interesse, cioè la collettività e gli utenti, rendendoli soggetti attivi che non subiscano più le scelte assunte da un’entità terza (costantemente ispirata all’ottica dell’efficienza, che non può essere il fine ultimo di ogni attività), ma che operano, per utilità reciproca, garantendo la gestione delle risorse per l’utilità collettiva del gruppo cui appartengono.

In quest’ottica, l’economia sociale e solidale (o economia del bene comune che dir si voglia) rappresenta un’innovazione economica, che diventa innovazione sociale e poi innovazione giuridica.


Cosa può fare il diritto per assecondare i mutamenti suggeriti da questa dottrina economica?

Sotto il profilo giuridico, un bene, oltre che privato, può essere pubblico, o privato ad uso pubblico, a dimostrazione che la gestione di beni non per fini di lucro, ma di reciproca soddisfazione, non presuppone che i beni modifichino il loro status giuridico divenendo per legge beni comuni. Ciò che conta è la gestione per la soddisfazione dell’interesse generale.

È utile allora individuare gli strumenti giuridici idonei a consentire la realizzazione di tale interesse. Chi scrive esclude che possa essere rimesso il tutto all’economia civile, cioè all’impresa sociale, per arginare ciò che da taluni è temuto come centralismo di Stato o comunque della sfera pubblica; anche perché solo con il coinvolgimento del soggetto pubblico l’economia civile potrebbe fare un salto “quantitativo”. Inoltre, anche quegli economisti che ritengono necessario escludere l’intervento pubblico, sembrerebbero contraddirsi quando invocano il finanziamento pubblico dell’economia sociale, a dimostrazione di come quest’ultima non possa prescindere dall’aiuto dello Stato. Occorre piuttosto chiedersi come possa il pubblico potere favorire questo cambio di paradigma negli scambi.

Diversi sono gli strumenti, oltre al già citato finanziamento pubblico, ricordiamo: la tutela dell’interesse generale, attraverso nuove categorie giuridiche; il ruolo dell’amministrazione condivisa; il citato coinvolgimento dei lavoratori/utenti nella gestione delle imprese. Quest’ultimo obiettivo può realizzarsi attraverso il partenariato, grazie a società partecipate da enti pubblici e privato sociale, fra cui rientrano le società cooperative di comunità, già introdotte in alcune regioni (Liguria, v. Lr n. 14/2015 e Puglia, v. Lr n. 23/2014), di cui sono soci necessari gli appartenenti alla comunità cui è rivolta l’attività e soci eventuali gli enti pubblici. La cooperativa di comunità, soggetto privilegiato del finanziamento pubblico, ha la “finalità di migliorare le condizioni economiche e sociali della comunità locale, attraverso la cooperazione fra i cittadini che la costituiscono”, anche allo scopo di dare loro prospettive di lavoro, consistenti, quindi, nella gestione di servizi fruiti dai medesimi.

Viene allora da chiedersi perché nell’ennesima riforma dei servizi pubblici locali (art. 14 ddl n. 1577) attualmente in discussione in parlamento, invece di riproporre il modello della gestione for profit, in violazione della volontà referendaria, il legislatore non provi a prendere spunto dalle straordinarie potenzialità di questo nuovo paradigma della reciprocità, per il perseguimento del bene comune, inglobando nella gestione lavoratori e utenti, o per lo meno ammettendo espressamente, tra le forme gestionali, tale possibilità del “fare insieme”.

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