Il dialogo è terreno di incontro e confronto tra soggetti diversi che non rinunciano alle loro caratteristiche e specificità, ma anzi trovano nella relazione con l’alterità una maturazione e una nuova conoscenza di sé. Le società multiculturali e multietniche portano il dialogo a essere una scelta di pace politica e civile. (Scopri di più su: http://www.benecomune.net/articolo.php?notizia=1867)

Andrea Casavecchia

Il dialogo è terreno di incontro e confronto tra soggetti diversi che non rinunciano alle loro caratteristiche e specificità, ma anzi trovano nella relazione con l’alterità una maturazione e una nuova conoscenza di sé. Le società multiculturali e multietniche portano il dialogo a essere una scelta di pace politica e civile: un'alternativa realistica allo “scontro tra civiltà” (Samuel Huntington, 2000). Il dialogo diventa inoltre cifra simbolica per leggere le forme di ibridazione e contaminazione culturale.

Il dialogo può essere ponte tra comunità religiose, può aiutare a superare stereotipi che tentano di rinchiudere le diverse confessioni in mondi separati, isolati, nei quali ognuno è attento al suo orto. Spesso incomprensioni, distanza e ignoranza verso l’altro hanno alimentato intolleranza, fomentato violenze e acceso guerre.


Segni di dialogo

Ogni comunità elabora un suo sistema di credenze: propri riti, proprie pratiche, da cui nascono esperienze e senso di appartenenza dei fedeli. Proprio da pratiche e riti emergono punti di somiglianza. Un esempio lo troviamo nelle tre grandi religioni del Mediterraneo, si pensi al digiuno presente nella Quaresima dei cattolici, nel Ramadan dei musulmani, nello Yom Kippur degli ebrei; si pensi ai pellegrinaggi: la Mecca (Hajj) per i musulmani, Santiago de Compostela per i cristiani, la salita verso Gerusalemme per gli ebrei. C’è poi il giorno di festa e di preghiera settimanale: sabato, venerdì e domenica. Ogni elemento entra in un quadro di significati e simboli specifici, ma presenta anche molti punti di riferimento comuni e di contatto.

La storia recente vive alcuni significativi momenti di dialogo, sebbene di frequente vengano dimenticati. Eppure abbiamo negli occhi le immagini delle visite e delle preghiere degli ultimi Pontefici nelle moschee o nelle sinagoghe.

Contiamo diversi eventi negli ultimi decenni.

La grande preghiera per la pace ad Assisi nel 1986, quando Giovanni Paolo II convocò i rappresentanti delle varie religioni. Parteciparono 62 capi religiosi provenienti da tutto il mondo: musulmani, induisti, buddisti, scintoisti, sikh, membri delle religioni tradizionaliste africane e americane indiane. Ciascun gruppo pregò a suo modo e in luoghi vicini, ma diversi. Tutti impegnati per una preghiera di pace.

Un altro importante segnale è stato la lettera del 13 ottobre 2007, firmata da 160 guide religiose musulmane, indirizzata all’allora Papa Benedetto XVI e a numerosi patriarchi delle Chiese d’oriente. La convergenza nel documento di tanti saggi dell’Islam conferisce autorevolezza al messaggio, in una religione senza una gerarchia definita. Nella lettera si individua nel comandamento dell’amore verso Dio e verso il prossimo il punto di unione delle tre religioni del libro (Islam, Cristianesimo, Ebraismo).

Un ulteriore segno di dialogo è l’incontro del 20 aprile 2015 tra Papa Francesco e la delegazione della conferenza dei rabbini europei, durante il quale è stato sottolineato il comune impegno a mantenere vivo il senso religioso degli uomini e della nostra società. E sempre nel 2015 nel campo del dialogo ecumenico il ruolo svolto da Ceca (Conferenze episcopali cattoliche europee) e la CEC (Conferenza delle Chiese europee) per cercare di comunicare con una voce comune per tutti i cristiani in Europa.

Per i cattolici un documento fondamentale per il dialogo con le religioni è la Nostra Aetate dove si riconosce la dignità di ogni credo religioso, si dedica spazio particolare ai musulmani e agli ebrei e si legge in riferimento alle altre fedi come induismo, buddhismo che "la Chiesa nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni".


Questioni sul dialogo

In una società la religione è insieme strumento di integrazione, di trasformazione sociale, ma anche un generatore di conflittualità. I flussi migratori tendono a far lievitare il numero di Paesi dove vi è una forte presenza di comunità appartenenti a diverse fedi. Si aprono questioni di convivenza quotidiana dovute, per esempio, ad usi alimentari (il divieto di mangiare il maiale per i musulmani o la carne bovina per gli indù) o di costume (il turbante dei sikh, il velo per alcune donne arabe), altre dovute alla possibilità di praticare il proprio culto in luoghi idonei.

A volte l’impatto culturale della presenza di una comunità di religione differente innesca paure, provocate da pregiudizi e stereotipi. Altre volte la carenza di dialogo e del riconoscimento dell’altro alimenta il pericolo di un fondamentalismo religioso che porta a violenze e oppressione.

Il dialogo presuppone una disponibilità al confronto. Le varie chiese e professioni religiose hanno elaborato nei millenni forti e specifiche identità e hanno sperimentato momenti di convivenza pacifica e di profonda conflittualità. “Parlare di dialogo richiama necessariamente il tema dell’identità, considerato spesso in alternativa al dialogo, come realtà acquisita che si vuole conservare ad oggi costo” (Canta, Pepe 2007). Il pluralismo religioso presuppone il riconoscimento della libertà di coscienza. Il dialogo tra religioni va distinto sia dal sincretismo sia dalla neutralizzazione identitaria, sprona a porsi in modo nuovo domande sulla qualità della fede.

Anche in Europa dopo un periodo di silenzio la religione è tonato a bussare alle porte dello spazio pubblico. Tantoché Jurgen Habermas (2005) ha parlato di società post secolare nella quale si assiste a un ritorno delle religioni, che possono offrire un orizzonte di senso e una capacità di trascendenza alle persone: bisogni a cui individualismo, narcisismo, razionalità e laicismo non rispondono. In questa prospettiva va sottolineata un’ulteriore novità: le religioni non accettano di rimanere nella sfera privata, e anzi rivendicano una presenza in quella pubblica.

Due condizioni essenziali per il dialogo interreligioso sono la garanzia di libertà religiosa e l’affermazione di una laicità assertiva.


1. Libertà religiosa

La libertà di professare la propria religione è riconosciuta come uno dei diritti fondamentali nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). È complesso però comprendere come questo diritto venga poi declinato nella realtà.

Una società fortemente plurale come gli Stati Uniti dedica attenzione alla libertà religiosa fin dalla formulazione del suo Bill of rights a partire dal riconoscimento dei diritti individuali. Luca Diotallevi (2010) descrive il modello di religious freedom statunitense, come elemento di espressione delle libertà e mutua da John With jr i principi per caratterizzare i punti del modello:
  • Libertà di coscienza;
  • Libero esercizio delle convinzioni religiose, anche oltre la sfera rituale, per ispirare anche argomenti e iniziative pubbliche;
  • Tutela del pluralismo religioso;
  • Divieto di discriminazione;
  • Separazione dei poteri politici e religiosi;
  • Divieto di formare una o più chiese di Stato.
Questi sei punti offrono la possibilità di professare individualmente, comunitariamente e pubblicamente la propria religione. Lasciano però aperta e senza indirizzo la questione relativa al confronto tra Stato, religioni e sistemi di credenze.

In Europa a partire dal 1648 con il trattato di Vestfalia, che ribadiva il principio cuius regio eius religio (il dominante stabilisce la religione del suo regno), si delineano popolazioni e Stati con chiese fortemente maggioritarie, che non favoriranno la diffusione di un pluralismo religioso per i successivi quattro secoli.

Saranno il Novecento e il periodo post coloniale con l’avvio di intensi flussi migratori a portare alla ribalta la questione. Così diversi paesi occidentali sperimentano peculiari modelli di integrazione: il melting pot statunitense, l’assimilazionismo francese, il multiculturalismo nella Gran Bretagna e in forme differenti in Canada e Australia. Tutte vie possibili che, però, mostrano anche i loro limiti (Cesareo, 2002).

Hanno dunque una radice lontana le differenze europee nell’affrontare il pluralismo confessionale. Come spiega Paolo Naso la varietà consente di «tracciare una mappa dell’Europa che distingue diverse intensità e diversi modelli di pluralismo. È evidente, ad esempio, la distanza tra il modello inglese – confessionale nella forma ma fortemente orientato al riconoscimento delle diverse comunità di fede – e quello francese tradizionalmente legato ad un modello di laicità che non implica alcun specifico riconoscimento delle diverse confessioni» (Naso 2010, p. 93).

In Italia la libertà religiosa è garantita costituzionalmente anche se la sua attuazione prevede la stipula di Intese tra comunità e Stato. Il caso italiano è unico per l’intreccio storico, geografico e politico con la Città del Vaticano, e per la presenza di una stragrande maggioranza della popolazione di professione cattolica. Se da una parte le religioni di minoranza si sono dovute adeguare alla traccia del Concordato stipulato con la Chiesa Cattolica, caratterizzato sia dalla distinzione tra attività religiose e attività secolari, sia dall’individuazione chiara di gerarchie e rappresentanze comunitarie, dall’altra parte, spiega Alessandro Ferrari, ogni singola intesa “è stata accompagnata dalla fruizione di uno statuto giuridico identico per tutte nei suoi tratti fondamentali che assicura ampia autonomia, tutela da un eccessivo ‘cattolicesimo diffuso’ nelle istituzioni pubbliche … e garantisce la possibilità di beneficiare di un importante bene pubblico promozionale, a partire dal godimento del cosiddetto 8perMille” (Ferrari, 2012, p79).


2. Laicità assertiva in una società post-secolare

Oltre a fornire risposte all’incertezza dell’esistenza le religioni sono anche una sorta di amalgama per la coesione sociale, perché aiutano i singoli a riconoscersi in una comunità di appartenenza. In società plurali si pone il problema di conciliare il riferimento alla comunità e quello al sistema sociale nel suo complesso. Alcuni ricercatori (Allievi, 2014) mostrano come le diverse comunità, quando sono inserite nel tessuto sociale più ampio riescono a svolgere un ruolo di integrazione. Per favorire questo processo occorre preparare un terreno comune per riconoscere e rendere condivisa l’alterità perché sia esigibile il diritto alla libertà religiosa, ma anche perché sia promosso e facilitato il contributo delle religioni alla costruzione del bene comune.

In un panorama di pluralismo religioso è importante formare un contesto civile capace di garantire i diritti di professione, personale e comunitaria, delle diverse fedi. Tale contesto può essere favorito da una laicità assertiva (cioè una laicità che superi l’opposizione ottocentesca tra civile e religioso, e vada oltre l’idea che la privatizzazione della confessione di fede sia essenziale alla neutralità dello Stato): una laicità capace di costituire uno spazio dialogico dove le diverse comunità di fede, tutelate nella propria differenza, possano convergere nel reciproco riconoscimento.

Una ricerca su I volti della laicità indica l’emergere di diverse posizioni sul tema. Chiara Carmelina Canta presenta i risultati di una ricerca che portano all'individuazione di cinque diverse tipologie di laicità in Italia:
  • laicità ideologica, che non ammette un ruolo pubblico della religione relegandola in uno spazio privato;
  • laicità utopica, che proietta la compresenza delle religione in un vivere quotidiano, quando, nella pratica, le differenze si confrontano;
  • laicità isomorfica, che si propone di mutuare un modello di laicità da altri Paesi, sostenendo l'impossibilità per l'Italia di elaborarne uno proprio a causa dell'ingerenza della Chiesa cattolica;
  • laicità dialogica-interreligiosa, che propone la crescita di una società pluralista all'interno di un confronto costante tra i credenti cattolici, i credenti di altre fedi e gli atei e agnostici;
  • laicità di mediazione, che chiede la presenza nello spazio pubblico delle religioni nel rispetto della storia e della tradizione del Paese, in modo da mantenere le differenze tra appartenenti alla confessione maggioritaria e le altre.
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