Nonostante la crisi il contributo all’economia nazionale è arrivato 227 miliardi di euro. Un risultato eccezionale per un Paese con un tasso di analfabetismo funzionale al 70%.
di Luca Aterini
Il nuovo rapporto 2015
“Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere, mostra un trend positivo quanto non scontato. Passando al setaccio le imprese delle filiere culturali e creative italiane, emerge come il loro contributo diretto in termini di valore aggiunto per l’economia italiana sia pari (dati 2014) a 78,6 miliardi di euro, che a loro volta ‘attivano’ altri settori dell’economia arrivando a muovere complessivamente il 15,6% del valore aggiunto nazionale: 227 miliardi di euro.
Riavvolgendo il nastro fino all’anno scorso (dati 2013), si vede come questa dimensione fosse già molto rilevante, ma più contenuta, arrivando a quota 214 miliardi di euro: in media, il peso della cultura e della creatività nell’economia nazionale è aumentato per più di 1 miliardo di euro al mese, fino ad arrivare a 227 miliardi di euro (13 in più rispetto all’anno prima). Non poco.
«Una ricchezza che ha effetti positivi anche sul fronte occupazione, visto che le sole imprese del sistema produttivo culturale – ovvero industrie culturali, industrie creative, patrimonio storico artistico e architettonico, performing arts e arti visive – danno lavoro a 1,4 milioni di persone, il 5,9% del totale degli occupati in Italia. Che diventano oltre 1,5 milioni, il 6,3% del totale, se includiamo anche le realtà del pubblico e del non profit».
Nel dettaglio, spiega Symbola, dalle 443.208 imprese del sistema produttivo culturale (il 7,3% delle imprese nazionali), arriva il 5,4% della ricchezza prodotta in Italia: 78,6 miliardi di euro. Che arrivano ad 84 circa, equivalenti al 5,8% dell’economia nazionale, se includiamo anche istituzioni pubbliche e realtà del non profit attive nel settore della cultura. Ma la forza della cultura va ben oltre, grazie ad un effetto moltiplicatore pari a 1, 7 sul resto dell’economia (mentre l’anno scorso si fermava poco prima, a 1,67): così per ogni euro prodotto dalla cultura, se ne attivano 1,7 in altri settori. Gli 84 miliardi, quindi, ne ‘stimolano’ altri 143. In tutto, fa sempre 227.
«L’Italia è forte se fa l’Italia, se scommette su ciò che la rende unica e desiderata nel mondo: cultura, qualità, conoscenza, innovazione, territorio e coesione sociale – commenta il presidente della Fondazione Symbola Ermete Realacci – Dalla crisi, infatti, non si esce con ricette del passato, ma guardando al futuro. Dalla bellezza, alla cultura alla green economy molte imprese italiane hanno già colto i segnali che ci parlano del domani e scommettono sulla cultura e la creatività per rafforzare le manifatture. Una strada intrapresa anche da Germania, Gran Bretagna e Giappone. Numeri alla mano, non solo con la cultura l’Italia mangia, ma la cultura è nel nostro dna e grazie ad essa possiamo costruire un futuro all’altezza della nostra storia. Ecco perché, come si è iniziato a fare, bisogna integrare le politiche culturali all’interno di quelle industriali e territoriali».
Ed è un processo che, seppur lentamente, spulciando i dati di Io sono cultura sembra stia avanzando. Nel periodo 2012/2014, quindi in piena crisi, le imprese che hanno investito in creatività hanno visto crescere il proprio fatturato del 3,2%, mentre tra le non investitrici il fatturato è sceso dello 0,9%. In un Paese dove il 70% circa della popolazione adulta rientra nei ranghi dell’analfabetismo funzionale, ossia non ha le competenze necessarie (
secondo l’ultima indagine Isfol-Piaac, promossa dall’Ocse) per relazionarsi efficacemente con la realtà dei nostri giorni, sembra un risultato fantascientifico.
Eppur si muove. E ancor più correrebbe, se alle singole (e numerose) eccellenze disseminate sul territorio si affiancasse una regia efficiente da parte del pubblico, che tuttora latita. La cultura e la spinta del capitale umano rappresentano il trait d’union naturale tra la sapienza “artigiana” di botteghe, pmi ma anche media industria, con la manifattura sostenibile e ad alto valore aggiunto di cui oggi ha bisogno il Paese per ripartire. Senza volontà (anche politica) d’investire, però, cultura e green economy potranno forse contribuire a tenere a galla l’Italia, ma non a ridar fiato a più alte aspirazioni.