Commenti. Un commento a "La lista della spesa", il libro di Carlo Cottarelli. Lo Stato italiano spende poco più di 800 miliardi di euro l'anno. Negli ultimi cinque anni, l'aumento è di appena 4 miliardi di euro, tutti legati alla "previdenza", e in particolare alle pensioni. Ministeri ed enti locali hanno saputo risparmiare. Come intervenire, quindi? "La strada percorribile appare quella meno legata alla dinamica delle cifre -scrive Alessandro Volpi-, ma fondata sulla revisione profonda della struttura stessa dello Stato". (Scopri di più su:
http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=5171)
di Alessandro Volpi*
Negli ultimi cinque anni la spesa pubblica italiana, al netto degli interessi sul debito, è cresciuta di appena 4 miliardi di euro, e tale lievitazione è dipesa unicamente dalla spesa degli enti previdenziali. Infatti, mentre tutte le altre voci della spesa primaria si riducevano di 24 miliardi, la spesa previdenziale aumentava di 28 miliardi. Ciò significa che a fronte di un significativo sacrificio imposto al bilancio pubblico, con pesanti ricadute, in particolare sulle generazioni più giovani, le pensioni hanno ricevuto maggiore protezioni rispetto ad altri interventi, subendo una più limitata contrazione del loro potere d’acquisto.
Si tratta di uno dei tanti dati contenuti nel volume di Carlo Cottarelli,
“La lista della spesa”, che fornisce una lucida analisi delle uscite pubbliche e contribuisce a sfatare diversi luoghi comuni. La spesa pubblica italiana ammontava nel 2013 -ultimo anno di cui l’Istat ha fornito le cifre definitive- a 818 miliardi di euro, 78 dei quali erano costituiti dagli interessi sul debito pubblico, difficilmente contraibili a meno di non voler rischiare il default.
Sottratta quest’ultima cifra, la spesa primaria risultava quindi pari a 740 miliardi, la cui principale voce era rappresentata dalla spesa previdenziale, che assommava a 320 miliardi, il 43% del totale, e che era composta da pensioni, trasferimenti alle famiglie, sussidi di disoccupazione e altri interventi analoghi.
La seconda voce era costituita dalla spesa delle amministrazioni centrali dello Stato per un totale di 190 miliardi e al terzo posto si collocavano le spese delle Regioni, intorno ai 138 miliardi, di cui ben 109 indirizzati alla sanità.
Sulla scorta di questi dati emerge pertanto che il sistema di welfare italiano, costruito su pensioni, altre forme previdenziali e sanità, occupa il 60% della spesa pubblica italiana, alla quale andrebbe aggiunta anche una parte della spesa rivolta in tale direzione dagli enti locali.
Comuni e Province pesano assai meno nella lista complessiva della spesa, perché incidono rispettivamente per 61 e 9 miliardi.
Dopo aver snocciolato una simile serie di numeri, è possibile provare a tracciare qualche considerazione di ordine generale. In primo luogo, appare evidente che ridurre ulteriormente la spesa pubblica italiana non è semplice, perché questa ha già conosciuto, negli ultimi anni, tagli importanti, e perché tagliare significa quasi inevitabilmente mettere mano al nostro Stato sociale, vista la sua incidenza sul totale della spesa.
Peraltro, il limitato aumento di 4 miliardi, scaturito dalla crescita della spesa previdenziale, è stato largamente ridimensionato da un riduzione del potere d’acquisto dei pensionati del 10%. In altre parole, persino le fasce meno colpite dai tagli non hanno retto all’urto della crisi. Anche le amministrazioni centrali, che certo più di altre possono essere destinatarie di ulteriori tagli, hanno già conosciuto dal 2009 al 2013 una riduzione del 17% del loro budget.
È altrettanto visibile che, in percentuale, la spesa pubblica italiana non è più alta di quella di altri Paesi europei: solo per citare qualche esempio, è possibile ricordare che la spesa per le funzioni della Difesa è in Italia pari all’1,1% del prodotto interno lordo, contro l’1,3 per cento in media dell’area euro, e la spesa sanitaria italiana è vicina al 7%, mentre quella tedesca e francese sono di un punto più alte.
Solo la spesa previdenziale è, nel caso italiano, molto più elevata rispetto ad altri Paesi, anche perché strutturata in maniera assai differente. Dunque, la spesa pubblica italiana è stata già tagliata, è molto connotata in termini sociali e non è più alta della media europea. Parrebbe tutto a posto, ma non è così.
Il vero problema discende dal fatto che la nostra spesa è più alta, secondo le stime di Cottarelli, di circa 40 miliardi di quanto possiamo permetterci in base alla nostra capacità di produrre ricchezza. In questo senso, rischia di non essere sostenibile qualora si associasse, in assenza di una significativa ripresa, a un improvviso aumento del costo degli interessi o a un brusco calo delle entrate, determinato da una riduzione del gettito fiscale.
Come reagire, allora? In maniera quasi paradossale, la strada percorribile appare quella meno legata alla dinamica delle cifre, ma fondata sulla revisione profonda della struttura stessa dello Stato nelle sue diverse forme, dall’eccessiva frammentazione degli enti, a cominciare dagli 8mila Comuni, fino alle infinite centrali di acquisto di beni e servizi che andrebbero accorpate per determinare benefiche economie di scala.
Servono poi alcune altre condizioni, ancora una volta poco legate ai numeri: dalla capacità della politica di individuare priorità senza la quale è impensabile qualsiasi riduzione di spesa, alla semplificazione e alla chiarezza normativa che dovrebbero coinvolgere subito il settore degli aiuti alle imprese e la giungla delle agevolazioni fiscali.
Tagliare non può essere un’operazione contabile, ma la conseguenza di un’accurata riflessione istituzionale.
* Alessandro Volpi, Università di Pisa