Considerata a distanza, dalla candida superficie della luna ad esempio, o dalla Tribuna della Convenzione giacobina, resuscitata per un attimo, l’Italia appare una società in larga parte, centrata sul vincolo della fedeltà e il principio di successione dinastica. Non solo al vertice, nel mondo politico o imprenditoriale. Ma pressoché a qualsiasi livello. (Scopri di più su:
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Michele Dantini- Torna il bando cheFare con 150mila euro per i tre migliori progetti d’innovazione culturale. Partecipa!
La distinzione tra Vecchio e Nuovo Mondo passa, per gli storici della civiltà europea, per l’opposizione tra società di status e società del talento. Qualcuno di noi ha dubbi su quale piatto della bilancia occupa il nostro paese? Domanda: se così stanno le cose come e perché parlare di “innovazione sociale”? E poi: “arte” e “cultura” hanno davvero la capacità di trasformare qualcosa di tanto imperativo e ineffabile come il “costume nazionale”? Altrove, lo sappiamo, sono state necessarie rivoluzioni sanguinose, guerre, ascese e crollo di imperi, impiccagioni e ghigliottine.
Introduciamo esempi illustri, e tuttavia poco discussi o conosciuti, di “innovazione sociale” in ambito specificamente culturale. Attorno alla metà degli anni Settanta un nutrito numero di storici dell’arte progressisti progettano un’opera che, nelle intenzioni dei promotori, deve cambiare il modo in cui guardiamo all’arte, alla storia e all’editoria di cultura. Sto parlando della Storia dell’arte italiana Einaudi, o almeno delle sue parti più sperimentali e innovative. Suppongo che la conosciamo tutti, e che qualcuno di noi l’abbia pure usata in più di una circostanza. Ampi volumi arancioni telati protetti da un cofanetto pure arancione.
A coordinare il progetto sono, quantomeno in un primo momento, Giovanni Previtali per la parte scientifica e Paolo Fossati per il coordinamento redazionale (in seguito la responsabilità editoriale passa da Previtali a Federico Zeri). Il primo è uno storico dell’arte antica e moderna, autore di studi di formidabile importanza sulla pittura del Trecento, allievo di Roberto Longhi.
Il secondo filologo, critico d’arte e curatore. Perché ne parlo adesso? Perché la Storia dell’arte italiana Einaudi doveva essere, nelle intenzioni di Previtali e Fossati, lo strumento editoriale in grado di intrecciare intimamente cultura storica e progetto etico-politico, memoria e trasformazione sociale. Concepito per portare a maturazione una diversa consapevolezza nelle classi dirigenti, avvicinare i modi altrimenti non comunicanti della divulgazione e della ricerca, infine orientare in modo più efficace l’arte contemporanea, la Storia dell’arte italiana doveva inoltre costituire la prova di maturità di una critica (e una storiografia) autonome dal mercato, poste al servizio della conoscenza effettiva e dell’interesse pubblico di un’intera nazione.
Cosa resta oggi di questo illustre cantiere di una storia dell’arte che doveva diventare “azione civile”, concepita a ridosso del PCI di Enrico Berlinguer? A mio parere sono valide alcune istanze molto generali, che invitano a considerare l’arte in connessione a altri ambiti di attività umana. Del tutto infecondo invece l’eccesso di politicismo. Davvero la “cultura” è qualcosa che si può organizzare, un “oggetto” suscettibile di dimostrazione e ragionamento? C’è il rischio che tutto ciò si trasformi in una cattiva imitazione della politica.
Nessuna battaglia artistica (o culturale), se sincera, può prescindere da un elemento di rischio individuale, di nudità e testimonianza (lo riconosce al tempo l’eletta voce fuori dal coro di una longhiana eterodossa come Carla Lonzi, che proprio sul punto polemizza con Argan).
La favola disneyana di Frozen rende omaggio a decenni di letteratura psicoanalitica dedicata all’”isteria” femminile. Cosa ci racconta, infatti, se non la graduale acquisizione dell’autocontrollo da parte di una fanciulla mirabilmente dotata, tuttavia insidiata da incontenibili crisi di collera? La classe creativa si confronta in Italia con difficoltà uguali e contrarie a quelle di Elsa, la giovane regina del conformistico regno di Arendelle. Oscilla tra apici di rabbia inespressa e imperative terapie di autocontenimento.
I maggiori ostacoli alla creatività vengono oggi
non dall’ideologia ma dalla difficoltà di accedere a un reddito dignitoso. Retribuzioni esili e incerte accrescono dipendenza e vulnerabilità, ed è improbabile che un ambito professionale modellato dalle pubbliche relazioni possa rivelarsi temerariamente innovativo. E’ qui che il rapporto tra cognitariato e innovazione sociale rischia più di perdersi: i settori della ricerca universitaria, dell’editoria, del giornalismo sono in larga parte simili al conformistico regno di Arendelle.
Tuttavia non ho dubbi: dovremmo appunto proporci di essere temerariamente innovativi.
E dunque avvicinare sfera estetica e sfera pratica, creatività e nuda vita. Immaginare scismi, appartenenze a venire e nuove solidarietà locali e transnazionali. Passare strategicamente sotto silenzio tutto ciò che viene dall’informazione mainstream. Negoziare con più durezza al tavolo in cui ci si confronta sulle norme di urbanità e convivenza. Porre in atto forme sostenibili e concrete di disobbedienza.
Quali? Non è il momento di dissolvere ogni astrattezza. Per adesso è sufficiente comprendere che non si è tenuti a ricambiare con fedeltà o rispetto istituzioni che disattendono l’obbligo della decenza o da cui non giunge riconoscimento.
“Lo Stato non può avere alcun diritto assoluto sulla mia persona o sulla mia proprietà”, proclamava Henry Thoreau nel 1846, dopo essersi rifiutato di pagare le tasse per protesta contro il proprio governo, giudicato militarista. Rivendichiamo l’audacia libertaria della tradizione democratico-radicale americana. Talvolta, non sempre, trasformazioni prodigiose iniziano con piccoli dinieghi.