Il modo di ripensare la partecipazione secondo Roberto Esposito. (Scopri di più su: http://www.labsus.org/2015/05/corpo-persone-e-cose/)

Amedeo Tumicelli

Che c’azzecca con i temi solitamente trattati da Labsus un libro scritto da un insigne professore di Filosofia Teoretica della Scuola Normale Superiore, Roberto Esposito? In che modo un’opera intitolata “Le persone e le cose”, edita da Einaudi nel 2014, può essere collocata tra quanto è oggetto d’interesse di questa sezione, solitamente avvezza a recensioni che trattano di sussidiarietà, beni comuni e quant’altro inerisca al coinvolgimento dei cittadini nel contesto della vita sociale?

L’effetto di perplessità è comprensibile non solo per chi ancora dovesse approcciarsi ad una simile lettura, ma pure per chi, arrivato all’ultima pagina, si trovasse a dover fare mente locale sui concetti espressi dall’autore in poco più di un centinaio di pagine: un saggio breve ma denso.
  • L’unica maniera per sciogliere il nodo metafisico tra cosa e persona è di accostarsi ad esso dal punto di vista del corpo
Dare un riconoscimento al mettersi in gioco attivamente! Partecipare! Questi sono i cardini che riempiono di sostanza un’opera che, altrimenti, avrebbe l’insipido sapore di argomentazioni campate in aria sulla scorta di un excursus filosofico e parafilosofico. Che senso avrebbe cianciare di cosa distingue le persone dalle cose e le cose dalle persone senza venire ad una collocazione di una simile problematica in termini concreti? Il puro gusto di offrire citazioni provenienti da un piccolo pantheon di pensatori illustri non vale a giustificare un libro che si propone di fare filosofia e non semplicemente di illustrare la storia del pensiero filosofico. La pretesa novità che l’autore intende apportare tramite la propria disamina riguarda il ruolo del corpo.


Una divisione insanabile?

Esposito individua nella bipartizione tra cose e persone un’antinomia che ha caratterizzato secoli di pensiero e che ha visto allargarsi sempre più la frattura tra questi due poli opposti. Tuttavia, al giorno d’oggi, spesso la realtà offre campi di continua intersezione tra le due categorie. Se da un punto di vista sociologico la persona si sta mercificando e sta assumendo i contorni della cosa, sotto altri aspetti le cose assumono funzioni e ruoli di persone soprattutto grazie al progresso tecnologico. Il netto dominio delle persone sulle cose è quindi messo in discussione e, per uscire dall’empasse di una crisi dissolutiva, è opportuno riconsiderare quel terreno di scontro che è, allo stesso tempo, cosa e persona: il luogo in cui le cose interagiscono con le persone è il corpo. Riuscire a dare una definizione del corpo diventa pertanto fondamentale non solo sul piano bioetico, ma pure su quello biopolitico e sociale.

Vi è una sorta di parossismo nell’esacerbare un preteso manicheismo persone-cose. Individuare nel diritto romano il capostipite dei mali di una simile scissione, significa non cogliere il carattere eminentemente pratico della classificazione operata dal giurista latino Gaio, il quale, distinguendo tra cose e persone, oltre che azioni, non intendeva creare uno schema del mondo reale, bensì fornire delle linee guida sul piano giuridico: considerato che il passaggio tra casi concreti e norme necessita sempre di un’interpretazione, inevitabilmente il diritto non può essere una piena rappresentazione della realtà, bensì un suo adattamento. Inevitabilmente noi vediamo il mondo attraverso i nostri occhi e lo descriviamo attraverso le nostre parole: ciò non è necessariamente una volontà di soggiogare all’uomo tutto il creato, ma il semplice stabilirsi di un legame con esso.


Il ruolo della ragione

Affermare, come fa l’autore, che “il prevalere della ragione sul corpo è parallelo a quello del proprio sul comune, del privato sul pubblico, dell’utile individuale sull’interesse collettivo” è fuorviante. È vero che occorre sempre prendere con le pinze le citazioni decontestualizzate, ma, già alla prima lettura, tale spunto appare evidentemente rischioso: la valorizzazione del corpo a discapito della ragione potrà pure portare ad un più immediato contatto con le fonti stesse della vita, recuperando la passione per la comunità, ma la corporeità, presa da sola, altro non è che l’affermarsi della forza bruta sulla ragionevolezza.

Appare piuttosto che sia la corporeità ad affermare la prevalenza del proprio sul comune, già per il semplice motivo che, ove un luogo sia occupato da un solido, un altro corpo non può occuparlo se non contrastando il primo, scacciandolo o schiacciandolo. Cum grano salis, quindi: è vero che è il corpo ciò che permette l’interfacciarsi dei sensi alla realtà fenomenica rappresentando lo strumento di connessione con il mondo, ma necessariamente va guidato dalla ragione. È tramite la ragione che si può capire che collaborare è meglio che isolarsi: il contributo alla comunità non può essere dato da un mero esercizio fisico, ma va accompagnato da un adeguato convincimento mentale, altrimenti è schiavitù e massificazione.

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