Per erigere solidi ponti di dialogo, occorre prima fortificare gli argini, oggi più che mai friabili e franabili, della conoscenza e dell’acculturazione. La conoscenza e il rispetto non è compito che spetta solo agli studiosi o ai mediatori, ma è dovere di ogni persona. E ancor di più di ogni credente, che deve farsi testimone, nella quotidianità, dell’insieme dei valori che sono rappresentati dalla sua fede e dal suo background culturale. (http://www.benecomune.net/articolo.php?notizia=1862)

Gabriele Tecchiato

Nell’ultimo quindicennio, al di fuori di una cerchia, più o meno ristretta, di addetti ai lavori che, ciascuno secondo le proprie competenze, hanno una conoscenza diretta e di prima mano dell’articolato universo che si è convenzionalmente portati a definire “mondo islamico” o “Islam”, l’idea che ci si è potuta fare, anche grazie all’intervento e al contributo più o meno voluto e più o meno militante dei mezzi di comunicazione di massa è che questo mondo, e la fede che ne è alla base, siano inconciliabili in maniera insanabile con quell’altrettanto articolato universo che altrettanto convenzionalmente si è soliti definire “Occidente”, là dove il mondo islamico sarebbe portatore di valori e idee regressivi e barbarici e il secondo sarebbe l’ultimo baluardo della/delle libertà e dei diritti.

Di qui una minuziosa ostensione, dimentichi della grande cultura e raffinatezza che sono proprie della civiltà islamica, d’immagini cruente, raccapriccianti e violente, quasi erette a icona di questa civiltà e di questa fede, ma opera di componenti spurie che si arrogano il diritto di rappresentare questa civiltà e questa fede senza che nessuno le abbia a ciò delegate e, soprattutto, senza essere riconosciuti come rappresentanti dall’insieme della comunità dei credenti. Quella comunità che è la parte sana e ampiamente maggioritaria dell’ecumene islamica e che, paradossalmente, non trova altrettanto spazio mediatico. Del resto, è storia antica, catturano più l’attenzione i dettagli di un sordido delitto che gli atti di filantropia.

Di qui, anche, il moltiplicarsi d’iniziative e d’inviti al dialogo tra Islam e Occidente, o tra Occidente e Islam, a tutti i livelli. Dialogo che spesso, e purtroppo, si riduce ad auliche parole e mere dichiarazioni d’intenti là dove dovrebbe, invece, essere capace di produrre risultati concreti, ancorché minimali. Il fine ultimo del dialogo dovrebbe, difatti, essere l’adozione di un’agenda dei lavori che parta da quelli che sono, e ve ne sono, i valori condivisi.

L’estensore di queste poche e brevi riflessioni ha trascorso l’ultimo quarto di secolo a studiare l’Islam e la civiltà islamica vedendo nel primo il completamento definitivo del puro monoteismo e la sua sublimazione, nella seconda l’ultimo grande interprete, e (ri)elaboratore, della grande tradizione classica e tardantica. Mai rottura, quindi, ma continuità. E nella rivelazione e nel divenire storico.

Proprio per questo, ogni volta che si chiede di ragionare in termini di Islam e Occidente, chi qui scrive non può fare altro che rispondere che i termini di paragone sono impropri. E non solo perché, di fatto, il termine “Occidente” rappresenta una categoria astratta, se non una vera e propria invenzione geopolitica, i cui confini, peraltro, sono labili e incerti (Huntington, ad esempio, non include nell’Occidente quella Grecia che è matrice primigenia di quel pensiero e di quei valori di democrazia che si vogliono fondanti dell’Europa) ma soprattutto perché, da sempre, tra Islam e Occidente vi è stata osmosi, prima ancora di al-Ghazzali e San Tommaso, un’osmosi da declinarsi non solo nella teologia e nella filosofia, se solo pensiamo alle decine di milioni di musulmani che popolano il cosiddetto Occidente, studiando, lavorando, portatori sì del loro patrimonio culturale e religioso ma sentendosi parte di esso, senza iato alcuno. Se davvero, come si pretende, esiste un Occidente, l’Islam ne è, da sempre, sua parte integrante e agente, senza complessi di alterità e senza essere, se non antagonista, deuteragonista.

Non percependo queste due realtà come separate, ma parte di un mondo unico, che è il mondo in cui esisto e interagisco, non ho mai pensato di essere, o di poter essere, un ponte tra due mondi. A voler proprio ragionare di ponti e di dialogo, non posso che ritornare all’esperienza dei miei studi islamistici, in tempi in cui non esistevano, o timidamente si affacciavano nei curricula, corsi integralmente di mediazione. Esistevano gli studi orientali puri, con molta filologia, storia, filosofia, diritto; studi, peraltro, ormai scevri dalle contaminazioni di un orientalismo visto come ancillare al colonialismo. Così io studiavo culture, sì altre ma contigue alla mia di provenienza, che non ho mai percepito come diverse, indagando la complessa trama che, invece, le unisce, senza tuttavia sovrapposizioni.

Questo mi ha permesso di comprendere che per erigere solidi ponti di dialogo, occorre prima fortificare gli argini, oggi più che mai friabili e franabili, della conoscenza e dell’acculturazione. Fornire, in definitiva, le basi per comprendere, e anche, volendo, giudicare, correttamente, senza pregiudizi. E soprattutto rispettare e rispettarsi. Opere tutte preliminari alla costruzione di ogni ponte. Conoscenza e rispetto sono i prerequisiti fondamentali per costruire ogni forma di dialogo e, anche in assenza di dialogo, non debbono, e non dovranno, mai mancare.

In ultimo, favorire la conoscenza e il rispetto non è compito che spetta solo, od esclusivamente, agli studiosi o ai mediatori, ma è dovere di ogni persona. E viepiù di ogni credente, che deve saper farsi testimone ed esempio, nella quotidianità, dell’insieme dei valori che sono rappresentati dalla sua fede e dal suo background culturale. Non è, questa, una novità. Piuttosto la messa in pratica degli insegnamenti del Profeta Muhammad, pace e benedizioni su di lui, di cui ci sono state tramandate le seguenti parole: “Dì: ‘Credo in Dio; quindi agisci rettamente’”.

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