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L'editoriale di "Altreconomia" 170. A settant'anni dal 25 aprile 1945, giorno della "Liberazione", il mondo è attraversato da conflitti, e il movimento per la pace (a cui è dedicata la copertina di "Altreconomia" 170) ha un compito fondamentale: far capire che "fare la pace" significa prendersi cura di quello che si ha (e di quello che si è) in ogni sfaccettatura della nostra esistenza, e quindi “fermare le discriminazioni”, “ridurre le disuguaglianze”, “tutelare e far tutelare i diritti”, “combattere grandi opere inutili”. (
http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=5075)
di Pietro Raitano
Settanta anni sono passati dal 25 aprile 1945, giorno che ricordiamo come quello della “Liberazione”. Quel giorno l’Italia si liberò dall’incubo dell’occupazione e della dittatura, quel giorno si intuì la fine di una guerra. Mancavano ancora alcuni mesi, mancava ancora l’atomica. Alla fine il conto superò i 55 milioni di morti.
Pensiamo: sono passati 70 anni, il mondo è diverso. Ma oggi il mondo è ancora costellato di guerre: diverse, diffuse, carsiche, sporadiche. Non per questo meno drammatiche. Le vittime permangono, aumentano, e sono sempre loro, i più deboli.
“L’indifferenza è il peso morto della storia. E l’indifferenza opera potentemente nella storia”, scriveva Antonio Gramsci nel 1917, a ventisei anni. Gramsci la guerra non l’avrebbe vista, vittima del regime fascista nel 1937 (anche lui ad aprile, il 27).
Per vincere l’indifferenza dedichiamo questo numero di Altreconomia alla pace e ai movimenti che la sostengono, la chiedono, la cercano, la invocano. C’è stata una stagione in cui questi movimenti rappresentavano un’ampia fetta della popolazione mondiale e sembravano condizionare in maniera significativa le scelte politiche internazionali. Oggi non sembra essere più così, oggi sembra prevalere l’indifferenza. “L’indifferenza opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza”.
Il potere -meglio: chi lo detiene- fa affidamento sull’indifferenza, la considera un’alleata indispensabile. Il fatto è che l’indifferenza opera ovunque, anche in ambiti che, magari meno drammaticamente delle guerre, contribuiscono comunque a peggiorare la vita di donne e uomini. L’indifferenza verso le sorti del Pianeta, ad esempio, la mancanza di tutela dell’ambiente.
Non sono questioni separate: non è un caso che i rischi nucleari siano associati a quelli legati al cambiamento climatico (e che “l’orologio dell’Apocalisse” segni meno 3 minuti a mezzanotte). Non è un caso che le guerre si combattano per l’accaparramento di risorse sempre più scarse, dal petrolio all’acqua (il 22 marzo, giornata mondiale dell’acqua, l’Onu ha ricordato che nel mondo 748 milioni di persone non hanno accesso a fonti idriche potabili sicure).
Se così stanno le cose, “pace” vuol dire molto di più di “assenza di conflitto”. Quindi “fare” la pace vuol dire prendersi cura di quello che si ha (e di quello che si è) in ogni sfaccettatura della nostra esistenza.
Vista così “chiedere la pace” sta anche per “fermare le discriminazioni”, o anche “ridurre le disuguaglianze”, e perfino “tutelare e far tutelare i diritti”. Oppure per “combattere grandi opere inutili” e le devastazioni del territorio, e tutte quelle iniziative economiche che millantano di fondarsi su modelli di sviluppo ragionevoli, che poi però sono buoni solo per la propaganda di chi maschera la realtà, fatta di predoni che vogliono spartirsi, tra pochi, i beni comuni di tutti.
Ci piace pensare che i colori della bandiera della pace vogliano dire anche questo, che diano conto di questa varietà di significati. E, certamente, di impegni da assumersi, di compiti da assolvere, di carichi da porsi sulle spalle.
Gramsci avrebbe detto che bisogna prendere parte, ovvero essere partigiani. Per questo, diceva, “odio gli indifferenti, perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?”.
A settanta anni dalla Liberazione sono ancora molte le dittature di cui disfarsi, grande la pace da costruire. Nel farlo occorre innanzitutto mantenere memoria di quel che è stato -oggi e per altri 70 anni: un po’ come certe invenzioni a due voci di Bach, che cominciano con una pausa- e poi magari darsi da fare, sul serio.