L’approvazione in Commissione parlamentare del disegno di legge delega in materia di terzo settore, impresa sociale e servizio civile (
su VITA il testo licenziato dalla Affari Sociali), segna la fine del primo round del processo di riforma. Il secondo si giocherà in Parlamento per l’approvazione definitiva e il terzo round, forse il più rilevante, vedrà in campo il Governo che entro un anno dovrà emanare i decreti che completeranno la cornice tracciata dalla legge delega. (
http://irisnetwork.it/2015/03/riforma-terzo-settore-impresa-sociale-approvazione-ddl/)
Un primo elemento di valutazione riguarda proprio la chiarezza del framework riformatore. L’impressione è che i lavori in Commissione non abbiano semplicemente rafforzato il quadro definitorio e le linee guida per la decretazione. In qualche caso si nota un tentativo di “entrare nel merito” su questioni specifiche, ad esempio in tema di Centri servizi per il volontariato (art. 5, comma 1, lettera e) oppure nel caso delle società di mutuo soccorso (art. 5, comma 1, lettera h). Una tensione comprensibile – soprattutto da parte delle minoranze – per non lasciare troppa “carta bianca” al Governo. In generale comunque il DDL uscito dai lavori consiliari ribadisce in maniera piuttosto netta gli elementi costitutivi classici del terzo settore a livello di missione (sull’architrave solidarismo/civismo), di settore di attività (con chiari richiami al Governo affinché definisca con precisione gli ambiti di intervento) e di destinazione delle risorse (rimarcando il vincolo alla distribuzione degli utili come elemento identitario). Oltre all’articolo 6 espressamente dedicato all’impresa sociale è utile segnalare la disposizione che prevede l’iscrizione di associazioni e fondazioni al libro V del codice civile (dedicato alle imprese) qualora svolgano attività di natura imprenditoriale (art. 3 comma 1 lettera d). Una indicazione importante per ampliare il comparto dell’imprenditoria sociale attingendo al bacino nonprofit non solo attraverso la cooperazione sociale.
Anche il dettato sull’impresa sociale risente di questa impostazione, nel senso che le caratteristiche di questo modello di impresa vengono tutto sommato definite a partire da elementi evolutivi contigui a quelli del terzo settore. Di nuovo, a livello di missione (produzione di beni e servizi in vista di obiettivi di interesse generale), di ambito di azione (con l’indicazione, a nostro avviso non corretta, di inserire specifici settori di attività non rimandando il compito ai decreti governativi) e di destinazione delle risorse (anche in questo caso si richiama la prevalente natura non lucrativa dell’impresa sociale e inoltre si delinea il possibile “cap” alla distribuzione degli utili, indicando come benchmark il modello cooperativo).
La novità più rilevante riguarda comunque l’impatto sociale. Al di là dell’attributo “misurabile” riferibile agli “impatti positivi” realizzati dalle imprese sociali ed eliminato dalla Commissione, rimane il fatto che nel dettato normativo al nuovo articolo 7 comma 3 si fa esplicito riferimento a linee guida governative in materia di impatto sociale da emanare in un contesto di “vigilanza, monitoraggio e controllo” che intitola l’articolo stesso. Nei prossimi mesi c’è quindi da attendersi un ulteriore e ampio confronto su modelli e metriche che meglio possono rappresentare l’impatto sociale da intendersi ora come un tratto caratteristico delle imprese sociali e dell’intero terzo settore.
Ultimo, ma non per ultimo, il tema delle risorse. Sul fronte economico i punti 1 e 2 della lettera f dell’articolo 9 aprono di fatto alla costruzione (o al rafforzamento) di un mercato di capitali e di investimenti espressamente dedicato all’impresa sociale delinenando quindi un ulteriore passaggio verso la formazione di un vero e proprio “comparto imprenditoriale”. A queste misure più marcatamente d’impresa si affincherà il fondo rotativo per l’intero terzo settore. Ma oltre alle risorse economiche, è utile segnalare anche l’avvio, sul modello del Regno Unito, di una politica di “asset transfer” che prevede l’assegnazione di beni immobili pubblici (non solo confische a organizzazioni mafiose) a favore di soggetti di terzo settore (però senza un rimando esplicito alle imprese sociali). Se a quest’ultima misura si sommano altri provvedimenti di natura simile (come l’art. 26 del decreto “Sblocca Italia”) è chiaro sarà necessario strutturare in tempi relativamenti brevi un “ecosistema” di risorse (in termini di competenze soprattutto) orientato a favorire processi di rigenerazione di beni comuni immobiliari su vasta scala.
Pronti al secondo round?