Educare alla bellezza: questa è la vera rivoluzione culturale che serve a questo Paese. Per questo bisogna partire dai giovani, dalla scuola. Abituare il giovane cittadino al ben fatto, al curato, ospitandolo in luoghi accoglienti, salubri, ben progettati. Educarlo alla collaborazione, alla manutenzione, al non spreco, al senso di comunità e di cittadinanza attiva, alla difesa del bene comune. Insomma: all’etica. (http://www.benecomune.net/articolo.php?notizia=1829)

Mara Filippi

“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà.

All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità: si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre.

È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”

In questa lucidissima analisi di Peppino Impastato, ammazzato da Cosa Nostra nel 1978, sta già tutto il senso di quella rivoluzione culturale ancor oggi mancante all’Italia perché possa dirsi, a pieno titolo, un Paese libero e democratico. Questa la Grande Bellezza che ancora ci manca.

A Peppino ho pensato vedendo Anime nere, l’intenso film di Francesco Munzi ispiratosi al libro di Gioacchino Criaco. La pellicola lascia nello spettatore il grande dubbio: chi è nato e vissuto in ambienti in cui il regolamento di conti è inesorabile legge di natura, riconosciuta e rispettata, può esimersi dalla vendetta? E allargando il discorso, chi trascorre la propria vita nello squallore – ambientale, culturale, sociale – può anelare alla bellezza?

Sono gli interrogativi alla base dell’utile fatica di Giuseppe Laganà, La ‘ndrangheta è anche femmina…e non è bella, che analizza la complessa trama delle relazioni familiari in contesti ‘ndranghetisti. Le utili esperienze di accoglienza di figli nati in tali ambienti e accolti in famiglie “normali” sono l’evidente controcanto dell’ineluttabile epilogo autodistruttivo del film.

Ripercorrendo le storie di Francesco e Salvatore, ragazzini che hanno avuto la possibilità di conoscere un ambiente familiare impostato su ben altri valori rispetto a quelli ricevuti nella famiglia (‘ndranghetista) d’origine, ripensavo al destino di uno dei protagonisti del film, Leo, che, giovane stolido e carico di rabbia, funge da detonatore dell’intera tragedia. E come credo che il vissuto positivo di Francesco e Salvatore non sia stato importante solo per loro ma, di riflesso, anche per le loro madri (che infatti non si oppongono alla famiglia affidataria) e non solo, così in Anime nere l’odio cieco, la mancanza di un progetto per il futuro, la vuotezza dell’ultimo rampollo della ‘ndrina trascinano nel baratro della faida l’intera famiglia.

Ma il disagio, la frustrazione di Leo sono già ben coglibili nell’ambiente in cui cresce, appaiono delineati nel paesaggio che fa da claustrofobica cornice alla storia. Bellissimi scenari aspromontani, crudi e spietati, fanno da sfondo ad Africo Vecchio, un agglomerato di case diroccate, per lo più abbandonate, vuote, mentre Africo Nuovo è un grumo informe di edifici incompiuti, cemento brutale, elementi accatastati senza regola o gusto. E dietro facciate non finite e scale senza ringhiera, scopriamo interni di sfarzosa pacchianeria e volgare ostentazione. Il vuoto esterno contrapposto ai falsi valori interni, dove l’arricchimento criminale può essere esibito. Dove non c’è più posto per l’antico sapere della civiltà contadina, dove vige solo un degrado umano e territoriale che conforma luoghi, persone, pensieri, dialoghi, oggetti. Da paesaggista trovo esemplare questo contesto così fortemente contrastato. Nulla potrebbe essere più eloquente.

Ma il non interesse, anzi il disprezzo, per tutto ciò che sta oltre la soglia di casa si avverte ormai sempre più spesso un po’ in tutto il nostro Paese: città sporche e degradate, territori aggrediti da brutali cementificazioni senza logica né armonia, ambienti e spazi verdi non più mantenuti e curati, alvei non rispettati e puliti, mari e coste fortemente degradati, crinali brutalmente disboscati, rifiuti abbandonati e incendiati, siti gravemente contaminati e mai bonificati sono ormai la regola. E tutto ciò senza capire – sia da parte del pubblico che del privato – che questo comportamento, oltre che essere folle e costituire un pessimo biglietto da visita offerto ai turisti, è prima di tutto antieconomico, autodistruttivo e amorale. Un prezzo altissimo che paghiamo quotidianamente con inondazioni, frane, incidenti, malattie mortali e un profondo degrado umano e sociale.

Interessante osservare come ogni anno al Premio di giornalismo investigativo Roberto Morrione, riservato a giovani autori di inchiesta, almeno un quinto delle proposte pervenute vertano su ipotesi di reato legate all’ambiente: territori violati, mari inquinati, industrie non risanate, traffici di rifiuti speciali, ecc… Impressionante constatare che, da Nord a Sud, non c’è regione italiana che si salvi da questo scempio.

A ben guardare però abbiamo qualche motivo per non essere del tutto pessimisti.
Esiste una sensibilità ambientalista mai avvertita prima anche in Italia. Le inchieste promosse dal Premio Roberto Morrione su ecomafie e affini, per esempio, sono tra le più richieste da scuole, festival, associazioni, comitati cittadini e diventano spesso spunto per dibattiti, denunce, ulteriori articoli di stampa, interpellanze parlamentari.

In effetti oggi abbiamo nuovi e efficaci mezzi per combattere i reati contro il nostro patrimonio paesaggistico e ambientale, sempre in attesa però che la politica colmi l’ingiustificabile, gravissimo vulnus giuridico e, sottraendosi alle lobby di grossi potentati affaristico-mafiosi, promulghi finalmente una legge che punisca penalmente tali reati e ci rimetta al passo con l’Europa.

A livello investigativo, oggi possiamo avvalerci del significativo lavoro della Direzione Investigativa Antimafia, che offre un’efficace e ormai consolidata sponda alla magistratura.

Il web è poi un potentissimo strumento di sensibilizzazione e organizzazione di cittadinanza attiva, che in molte campagne di promozione dal basso raggiunge velocemente efficaci risultati.

L’associazionismo, anche se in genere meno sviluppato rispetto ad altre nazioni (ma non certo sui temi della criminalità organizzata, vedi l’esperienza di Libera) opera comunque una costante e progressiva consapevolezza e, saldandosi con le infinite possibilità di aggregazione offerte dal web, diviene valido strumento di contrasto.

Anche se con forte ritardo, finalmente l’Italia intera sta prendendo coscienza del fatto che il tema “mafie” è un problema nazionale e non soltanto di alcune regioni del Sud, ed alcune regioni del Nord, come l’Emilia Romagna, stanno mettendo a punto nuovi ed efficaci strumenti di contrasto.

E poi la lenta ma costante emancipazione femminile, che consente alle donne una presa di coscienza e di consapevolezza faticosa ma progressiva. Invece che subire passivamente il proprio ruolo, oggi mogli, figlie, madri e sorelle trovano il coraggio di collaborare con la giustizia, di dire no ad un destino che sembrava ineluttabile.

E’ una vera e propria rivoluzione culturale quella che serve, e per questo bisogna partire dai giovani, dalla scuola. Abituare il giovane cittadino al ben fatto, al curato, ospitandolo in luoghi accoglienti, salubri, ben progettati. Educarlo alla collaborazione, alla manutenzione, al non spreco, al senso di comunità e di cittadinanza attiva, alla difesa del bene comune. Insomma: all’etica. “L’etica libera la bellezza” trovo sia stato lo slogan più potente che Libera abbia inventato in vent’anni di battaglie. Peppino Impastato l’avrebbe gridato con orgoglio. La Grande Bellezza, questo il fine ultimo, rivoluzionario che ci deve ispirare.

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