Alle origini del Regolamento c’è quella che 18 anni fa sembrava un’assoluta utopia. (http://www.labsus.org/2015/02/amministrazione-condivisa-18-anni-dopo-utopia-realizzata/)

Gregorio Arena

Utopia letteralmente vuol dire "luogo che non c'è": ma, come dimostra la storia, questo luogo non c'è perché nessuno lo cerca, non perché non possa esistere.

Festeggiamo in questi giorni il primo “compleanno” del Regolamento sulla collaborazione fra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, che fu presentato in un affollato incontro pubblico dal Sindaco di Bologna il 22 febbraio 2014. Nei mesi scorsi abbiamo parlato dell’accoglienza ricevuta dal Regolamento in questo primo anno, dei suoi effetti nel liberare le tante energie nascoste nelle nostre comunità, del ruolo che potrebbe avere la cura condivisa dei beni comuni anche dal punto di vista economico, di quanti comuni l’hanno adottato e così via.

Ma il punto di vista con cui, per festeggiarne il primo anno di vita, guarderemo questa volta al Regolamento è assolutamente inedito, perché sveleremo le sue lontane origini e dimostreremo come a volte quelle che sembrano utopie possono realizzarsi.


Un saggio di 18 anni fa

Tutto è infatti cominciato nel 1997, con un saggio pubblicato nel n. 117-118 della rivista giuridica Studi parlamentari e di politica costituzionale, intitolato Introduzione all’amministrazione condivisa (in allegato). Era la prima volta che in Italia (ma anche all’estero) si sentiva parlare di “amministrazione condivisa”, un’espressione scelta di proposito per distinguere questo nuovo modello di amministrazione da un lato dalle esperienze di partecipazione a livello locale degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, dall’altro dalla partecipazione al procedimento amministrativo prevista dalla legge n. 241/1990.

L’amministrazione condivisa, si diceva in quel lavoro, era un nuovo modello di amministrazione “fondato sulla collaborazione fra amministrazione e cittadini, che si ritiene possa consentire una soluzione dei problemi di interesse generale migliore dei modelli attualmente operanti, basati sulla separazione più o meno netta fra amministrazione e amministrati”.

Esso è basato “in primo luogo sull’ipotesi che allo stadio attuale di sviluppo della società italiana esistano i presupposti per impostare il rapporto fra amministrazione e cittadini in modo tale che questi ultimi escano dal ruolo passivo di amministrati per diventare co-amministratori, soggetti attivi che, integrando le risorse di cui sono portatori con quelle di cui è dotata l’amministrazione, si assumono una parte di responsabilità nel risolvere problemi di interesse generale”.


Il ruolo dei dipendenti pubblici e la formazione

In secondo luogo, questo modello “si basa sulla convinzione che i dipendenti pubblici italiani, se adeguatamente formati e motivati, sono perfettamente in grado di far funzionare il modello di co-amministrazione che qui si presenta; anzi, probabilmente saprebbero farlo funzionare in maniera migliore del modello attuale, imperniato sulla separazione e sul reciproco sospetto. Come per ogni altra iniziativa di riforma dell’amministrazione, tutto dipende dalla formazione”.


Non anomalie, bensì un nuovo modello

Infine “questo modello si fonda sull’assunto che sia non solo possibile ma anche necessario inquadrare all’interno di una nuova griglia teorica una serie di esperienze ed istituti giuridici presenti nel nostro sistema amministrativo ma tuttora privi di uno status teorico adeguato. In molti settori vi sono esperienze di gestione riconducibili, in tutto o in parte, al modello teorico qui definito ‘amministrazione condivisa’: ma essendo appunto fondate, implicitamente o esplicitamente, sulla collaborazione con i cittadini, la loro presenza in un sistema amministrativo ancora largamente caratterizzato dalla separatezza rispetto al resto della società viene percepita come un’anomalia e non come sintomo di un possibile diverso modo di operare dell’amministrazione”.


Una società piena di risorse

Il saggio andava poi al cuore del funzionamento del nuovo modello di amministrazione, affermando che “… si può impostare in modo nuovo il rapporto fra amministrazione e cittadini …. realizzando una sintonia ancora maggiore tra l’amministrazione e alcune caratteristiche positive della società italiana. Fra queste vi è senza dubbio quella di essere una società piena di risorse, vivace, attiva, intraprendente, capace di affrontare ogni genere di ostacoli, ivi compresi quelli creati da una burocrazia che spesso sembra fare di tutto non per sostenere, ma per ostacolare il dispiegarsi di queste capacità”.


L’amministrazione e i suoi nuovi alleati

Rispecchiare questo aspetto della nostra società, essere in sintonia con essa “significa che l’amministrazione deve saper diventare uno dei ‘luoghi’ in cui la varietà, le capacità, in una parola le risorse della società italiana possono manifestarsi, contribuendo alla soluzione dei problemi di interesse generale. Finora, queste risorse sono state ignorate: i soggetti destinatari degli interventi pubblici sono stati normalmente considerati come soggetti passivi dell’azione amministrativa … non certo persone portatrici di risorse proprie sotto forma di capacità, esperienze, competenze, idee, tempo, etc.; né si è pensato che grazie a queste risorse costoro possono diventare alleati dell’amministrazione nella soluzione di problemi sia individuali sia collettivi”.


La varietà come opportunità

Il saggio sviluppava questo concetto affermando che “L’essenza del pluralismo consiste nel trarre il massimo vantaggio dalla varietà, considerandola un’opportunità e sapendo che non ci può essere una soluzione valida per tutti i problemi; questo vale anche per il modello dell’amministrazione condivisa, che è solo una delle soluzioni possibili, non certo l’unica”.

Il modello dell’amministrazione condivisa in sostanza “fa emergere la possibilità di un nuovo rapporto dei cittadini con l’amministrazione in una società pluralista: siano cittadini singoli, associati, soggetti economici, essi possono diventare protagonisti nella soluzione di problemi di interesse generale ed al tempo stesso nella soddisfazione delle proprie esigenze, instaurando con l’amministrazione un rapporto paritario di co-amministrazione in cui ciascuno mette in comune le proprie risorse e capacità, in vista di un obiettivo comune”.


Cittadini attivi, elettori, clienti

Così, proseguiva il saggio, si“valorizzano le persone e si consente loro di uscire dal tradizionale rapporto di minorità e subordinazione nei confronti della pubblica amministrazione, per assumere invece uno status più in sintonia con quello che quei medesimi soggetti hanno nella sfera della politica (in quanto elettori) ed in quella del mercato (in quanto clienti e consumatori)”.


Sviluppare l’autonomia delle persone

Un altro punto importante sottolineato nel saggio era che “questo modo di essere dell’amministrazione in una società pluralista, formata da persone (singole e associate) che creano fra di loro e con l’amministrazione una rete di relazioni reciprocamente arricchenti, è fondato sull’autonomia delle persone. E ciò consente l’instaurarsi di un meccanismo che si autoalimenta, in quanto se l’amministrazione svolge in maniera efficace, insieme con i cittadini, la propria missione costituzionale, essa facilita il pieno sviluppo dei cittadini stessi e quindi ne aumenta l’autonomia, che è al tempo stesso la condizione affinché possa funzionare il modello dell’amministrazione condivisa”.


Non è un’utopia

Ma nel 1997 immaginare che potesse nascere un nuovo modello di amministrazione con i cittadini come protagonisti sembrava del tutto irrealistico. Per questo nel saggio si diceva che “Realizzare questo modello nel nostro sistema amministrativo non è, come a qualcuno potrebbe sembrare, un’utopia … Esistono già in molti settori esperienze di amministrazione condivisa che però non sono percepite come tali, ma piuttosto come esperimenti singoli, oppure come ripieghi o addirittura anomalie rispetto alle forme di intervento tradizionali dell’amministrazione. Ovunque vi sono in Italia amministratori pubblici che hanno realizzato esperienze concrete di amministrazione condivisa, conseguendo risultati migliori di quelli che avrebbero potuto ottenere utilizzando strumenti di intervento tradizionali…..”.

E si aggiungeva che quello che conta è l’atteggiamento, perché “per fare amministrazione condivisa ci vuole intelligenza, intraprendenza, fantasia e un pò di disponibilità a rischiare, intesa come capacità di individuare e poi percorrere strade nuove per risolvere problemi di interesse generale … conta non tanto quello che si fa, ma come si è, cioè l’atteggiamento dell’amministratore verso i problemi e verso la società….”.


I sogni dei nostri nonni

“Ciò che importa è ricordare che, secondo la sua etimologia, il termine utopia letteralmente vuol dire ‘luogo che non c’è’: ma, come dimostra la storia, questo luogo non c’è perché nessuno lo cerca, non perché non possa esistere. Sia nel settore dell’amministrazione, sia in generale nella nostra società, non sono poche le idee definite utopie che poi si sono realizzate.

Del resto, basta guardarsi attorno per rendersi conto che molti di quelli che erano i sogni dei nostri nonni sono oggi la nostra realtà quotidiana. Dai diritti civili alla condizione della donna, dall’istruzione alla qualità della vita, ovunque si confronti la situazione attuale del nostro Paese con quella che era appena cento o cinquanta anni fa, si vede che molte di quelle che allora erano utopie oggi sono realtà, grazie all’impegno e spesso anche al sacrificio di molti”.


Un auspicio

Il saggio si concludeva con queste parole: “E’ possibile che il modello dell’amministrazione condivisa sembri oggi utopistico; ma se si dovesse constatare che esso è in grado di dare risposta a problemi reali della nostra società meglio di altri strumenti più tradizionali, il fatto che oggi sembri utopistico non dovrebbe costituire una remora ad impegnarsi per la sua realizzazione. Non sarebbe infatti la prima (e probabilmente nemmeno l’ultima) volta che un’utopia si realizza”.

Parole che esprimevano un auspicio, non una certezza. I cambiamenti nell’amministrazione erano in atto e quel saggio cercava di dar loro legittimità sul piano teorico, ma mancava completamente una legittimazione sul piano normativo. Questa si ebbe solo con la revisione nel 2001 del Tit. V della Costituzione, che portò all’introduzione nell’art. 118 ultimo comma del principio di sussidiarietà.


Chi l’avrebbe mai detto?

L’art. 118 ultimo comma ha legittimato il modello dell’amministrazione condivisa al livello più alto, quello costituzionale. Mancava uno strumento per l’agire quotidiano delle amministrazioni, come il regolamento di cui festeggiamo in questi giorni il primo “compleanno”.

Adesso c’è. E diciotto anni dopo la pubblicazione di quel saggio decine di comuni italiani hanno adottato un Regolamento comunale che “in armonia con le previsioni della Costituzione e dello Statuto comunale, disciplina le forme di collaborazione dei cittadini con l’amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani”.

Un Regolamento che, applicando la Costituzione, disciplina il funzionamento concreto, quotidiano, di quel modello di amministrazione chiamato diciotto anni fa per la prima volta “amministrazione condivisa”.

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