Abbiamo disinvestito sia sulla quantità che sulla qualità delle nuove generazioni. Più che il sogno della decrescita felice quello che si sta realizzando rischia di essere un incubo con conseguenze disastrose.
di Alessandro Rosina
Nel 2013 l’Italia ha raggiunto il valore più basso di sempre nella curva delle nascite. Il punto più alto era stato raggiunto mezzo secolo fa, nella prima metà degli anni Sessanta, con oltre un milione di nati ogni anno. Si è scesi sotto le 900 mila unità nel 1972, sotto le 800 mila nel 1976, sotto le 700 nel 1979, sotto le 600 mila nel 1984, da allora non siamo più risaliti sopra tale livello. L’ultimo dato fornito dall’Istat, quello appunto del 2013, indica 514 mila nati, ma sarebbero 410 mila senza il contributo dell’immigrazione. Questi sono i valori assoluti.
Se facciamo riferimento al tasso di fecondità totale, ovvero al numero medio di figli per donna, è dal 1978 che ci troviamo sotto il fatidico valore di 2 (ovvero sotto la soglia di sostituzione generazionale) e dal 1984 sotto 1,5. Oggi il dato arriva a malapena a 1,4. Questo ci rende uno dei paesi sul pianeta con maggior persistenza della bassa fecondità.
Le nascite sono in ogni caso in contrazione in tutto il mondo. Da livelli di antico regime superiore ai 5 figli per donna, la media planetaria sta scendendo sotto i 2,5 figli. E’ bene notare che la popolazione mondiale cresce non perché si fanno più figli che in passato – se ne fanno anzi molti meno – ma perché la mortalità infantile è fortunatamente diminuita molto, e perché si vive più lungo. Ecco allora che la conseguenza della riduzione delle nascite e dell’aumento della longevità non è tanto la crescita della popolazione ma il suo invecchiamento, ovvero la diminuzione del peso delle nuove generazioni a fronte della crescita senza precedenti della popolazione più matura.
L’Italia è un caso interessante nella lettura delle dinamiche demografiche perché anticipa caratteristiche e implicazioni di una popolazione che riduce fortemente la presenza delle nuove generazioni e protrae particolarmente in avanti la durata di vita in età matura. Siamo stati, in particolare, il primo Paese che ha visto gli under 15 superati dagli over 65 e saremo tra i primi che vedranno gli over 80 superare gli under 20. Come esito delle dinamiche sopra delineate oggi la generazione italiana più consistente è quella di chi ha tra i 35 e i 49 anni, che conta oltre 14 milioni di persone. Sotto i 20 anni, invece, nessuna generazione supera le 600 mila unità nonostante il rilevante contributo dell’immigrazione.
E’ evidente che: a) per il nostro Paese la preoccupazione non è la crescita demografica e che b) ridurre ulteriormente le nascite andrebbe ad accentuare lo squilibrio dell’invecchiamento con tutte le sue implicazioni sociali ed economiche. La questione da affrontare è quindi quella di come produrre benessere, nella sua accezione più ampia, avendo alleggerito così tanto l’apporto delle nuove generazioni a fronte di una crescita sostenuta della popolazione inattiva in età anziana e soprattutto della domanda di cura e assistenza dei grandi anziani (gli over 80).
I cittadini di un paese sono allo stesso tempo produttori e destinatari di benessere (materiale, sociale, relazionale). Rispetto a tale bilancio le età giovani-adulte e adulte-giovani sono ovunque nel mondo quelle che forniscono il maggior contributo positivo sia a favore di quelli che vengono dopo (che sono sempre di meno) sia rispetto alle vecchie generazioni (che sono sempre di più). Nei prossimi decenni la fascia che si ridurrà di più in Italia è proprio quella che maggiormente fa da asse portante e motore della crescita, ovvero quella dai 35 ai 49 anni, destinata a perdere oltre un terzo della sua consistenza.
Come si risponde a questi cambiamenti? Rinvio al mio libro “Demografia”, edito da Egea, per una discussione più ampia. Alcune suggestioni utili possono però essere date in questa sede mettendo a confronto l’Italia con due altri grandi paesi europei.
La Francia, come gli Stati Uniti, ha tenuto basso lo squilibrio generazionale mantenendo livelli di fecondità attorno ai due figli per donna. La Germania ha subito una accentuata riduzione della nascite simile alla nostra ma, in compenso, ha investito fortemente sulla qualità delle nuove generazioni, sia in termini di formazione che occupabilità, inoltre attrae giovane capitale umano da altri paesi per alimentare i settori più dinamici, innovativi e competitivi. Noi invece abbiamo disinvestito sia sulla quantità che sulla qualità delle nuove generazioni, con la conseguenza di un processo di “degiovanimento” non solo demografico ma anche sociale ed economico. Una spirale negativa che affligge tutto il Paese, ma che sta colpendo in modo ancora più preoccupante il Mezzogiorno dove la fecondità è scesa da qualche anno sotto i livelli medi nazionali.
Difficile trovare in Europa un’area che veda economia e demografia così negativamente intrecciate: più che il sogno della decrescita felice quello che si sta realizzando rischia di essere un incubo con conseguenze disastrose, e dal quale i giovani più dinamici e preparati cercano di fuggire.
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