Strategie globali. Gli Usa sono il primo mercato dell’export europeo: 484 miliardi di euro nel 2013. (http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=4999&fromRivDet=171)

Il 2015 è l’anno decisivo per i negoziati del TTIP, partnership economica tra Stati Uniti e Unione europea. A Bruxelles è in corso, fino al 4 febbraio, l'ottavo round negoziale (che vedrà mercoledì una mobilitazione della campagna Stop TTIP). Nel dossier di "Altreconomia", le aspettative dell’industria italiana in merito all'accordo.

di Luca Martinelli

Carlo Calenda, 42 anni, romano, è l’uomo dell’accordo di partenariato economico tra Unione europea e Stati Uniti d’America. Viceministro dello Sviluppo economico nel governo di Matteo Renzi, dopo aver ricoperto lo stesso incarico con Enrico Letta, la sua carriera negli ultimi dieci anni -prima di entrare nell’esecutivo- è legata a filo doppio con Luca Cordero di Montezemolo, di cui è diventato (nel 2004) primo assistente in Confindustria. Uomo d’impresa, con un passato da responsabile Customer Relationship Management della Ferrari, non ha timore di dire le verità: “Il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP, in inglese, vedi box) serve all’Occidente, che così potrà riprendere la guida della globalizzazione”, riparando agli errori commessi dalla metà degli anni Novanta, quando ha aperto “squilibri profondi nei rapporti commerciali con l’obiettivo di allargare la platea dei consumatori”. Nel corso di un incontro organizzato a Milano dall’Istituto di studi di politica internazionale (ISPI), intorno a metà dicembre, Calenda ha ribadito che “se chiudiamo gli accordi” -al plurale, perché il viceministro associa al TTIP con gli USA anche l’Accordo economico e commerciale globale (CETA) tra Unione europea e Canada, firmato a fine settembre 2014- “esisterà un’area omogenea cui corrisponde il 63 per cento del prodotto interno lordo mondiale senza alcun Paese BRIC”, cioè escludendo Brasile, Russia, India e Cina.

Accanto a Calenda, all’ISPI, era seduto Luca Zanotti, amministratore delegato di TenarisDalmine, che è il primo produttore italiano di tubi di acciaio senza saldatura per l’industria energetica, automobilistica e meccanica, e fa parte di un gruppo globale (www.tenaris.com), con numerosi stabilimenti anche negli Stati Uniti d’America. Zanotti ha ammesso di aver letto qualcosa sul TTIP nell’ultimo fine settimana prima dell’incontro pubblico. E noi abbiamo chiesto all’industria italiana, dall’ANFIA (Associazione Nazionale Fra Industrie Automobilistiche) a Cosmetica Italia, che cosa si aspettano da questa partnership, per capire se è davvero così importante. Vi proponiamo quest’analisi nel mese (febbraio 2015) in cui Bruxelles ospita l’ottavo round negoziale. Questo è l’anno decisivo, perché Carlo Calenda è come un pioniere che potrebbe anche non raggiungere mai il suo West. Geograficamente, corrisponde alla West Coast americana, quella che affaccia sul Pacifico e su un’altra decina di Paesi (tra questi il Giappone) che stanno negoziando un altro accordo commerciale con gli USA, che si chiama Transpacific Partership (TPP).

Quindi, il futuro è del TTIP o del TPP. Sembra uno scioglilingua, ma non è così: gli Stati Uniti d’America potranno scegliere di spostare il proprio asse commerciale sull’Asse Atlantico o su quello Pacifico, con importanti modifiche anche sulla governance globale. Il perché, ce lo spiega Confindustria: “Perché il TTIP è importante? Per una ragione inerente a dinamiche del commercio internazionale. La sfera multilaterale (cioè l’Organizzazione mondiale del commercio, o WTO, ndr) non garantisce più la necessaria liberalizzazione dei mercati. Ecco che proliferano accordi bilaterali. Molti, però, sono di carta, perché la loro ‘copertura’ è minima, sia per il tipo di riduzione di barriere tariffarie sia perché escludono settori strategici come l’agricoltura, il chimico, il tessile, i prodotti tecnologici, gli appalti pubblici o i servizi, e finiscono col valere soprattutto nei rapporti intra-company”, cioè tra filiali di una stessa impresa.

In questa pletora di accordi che possono essere definiti “farlocchi” (così, almeno, fa il mio interlocutore di Confindustria), ve ne sono tre o quattro che sono epigoni del Transatlantic Trade and Investment Partnership, cioè il (già ricordato) TPP, quello tra Cina, Corea del Sud e Giappone, quello tra Stati Uniti e Corea del Sud e -infine- quello tra Unione europea e Corea del Sud. Questi accordi tra i grandi scriveranno il futuro assetto commerciale globale. E il timore del rappresentante di Confindustria è che “se i negoziati del TTIP si piantano, noi siamo fuori mentre i grandi continuano ad andare avanti”.

È in corso una partita di un nuovo gioco da tavolo che mette insieme il risiko e gli scacchi: ogni Paese (o blocco di Paesi) si gioca una fetta del proprio potere, ma solo noi -con l’America- avremmo il potere di costringere il mondo a subire uno scacco matto, perché -come ricorda il rappresenta di Confindustria- “quando uno standard relativo a un processo produttivo o alle caratteristiche di un bene è valido qui e là, diventa mondiale”. Anche i contenuti delle analisi d’impatto, realizzate utilizzando modelli econometrici statici, sarebbero “aleatorie”, ma sono uno degli strumenti utilizzati per convincere l’opinione pubblica, un’ossessione per Calenda, che ha iniziato la sua conferenza all’ISPI attaccando i media e la lettura -a suo avviso distorta- che stanno dando del TTIP.

Le truppe dell’industria italiana avanzano sparse. Se guardiamo ai servizi pubblici, “Utilitalia”, che riunisce Federambiente e Federutility, e rappresenta 577 imprese nei settori dell’igiene ambientale, dell’energia, del gas e dell’acqua, per un valore della produzione pari a 40 miliardi di euro, spiega che “al momento il tema non è stato minimamente affrontato, né dal punto di vista normativo, né tecnico”. “Si comincerà a lavorarci quando il trattato diverrà più concreto e arriverà a toccare in modo più diretto i servizi e gli appalti pubblici, al momento tema marginale” commentano dall’ufficio stampa.

Dai servizi agli appalti pubblici, un mercato che gli Stati Uniti d’America hanno “chiuso a chiave” nel 2009, con l’approvazione dell’American Recovery and Reinvestment Act, e che non intendono riaprire. L’Istituto grandi infrastrutture (www.igitalia.it), un centro studi sugli appalti pubblici che vede tra i propri soci alcune tra le maggiori imprese di costruzioni di opere pubbliche del nostro Paese -da Impregilo a Pizzarotti, da Astaldi a CMC-, fa sapere che non c’è stata alcuna riflessione sul possibile impatto della nuovo TTIP. I conti in tasca a servizi e appalti pubblici sono rimandati, mentre è più facile guardare ai settori manifatturieri, a partire da un dato: secondo un documento del ministero dello Sviluppo economico, che per “sfatare” alcuni miti e raccontare #laforzadellexport ha reso pubblico in gennaio un testo titolato Pride and Prejudice, la bilancia commerciale per il nostro Paese registra un saldo positivo di 122 miliardi di euro nel 2013, e l’Italia dal 2000 ha perso solo il 26% dell’export, contro il 41% degli USA, il 35% del Regno Unito, il 39% della Francia. Di più: esisterebbero ben 935 prodotti per i quali l’Italia detiene una delle prime tre posizioni al mondo per surplus commerciale (2012).

Tra questi c’è il vino. “L’export verso gli Usa per noi vale circa 1,5 miliardi di euro, ed è il miglior mercato al mondo” racconta ad Ae Domenico Zonin, presidente dell’Unione italiana vini (www.uiv.it), associazione cui aderiscono circa 500 aziende, che detengono il 70% dell’export italiano. Secondo Zonin, il TTIP potrebbe andare a sistemare “alcune cosine”, come i problemi che riguardano “la tutela delle indicazioni geografiche, perché esistono, ad esempio, aziende americane che vendono prodotti a marchio ‘Chianti’ e ‘Marsala’ , poiché considerano le nostre indicazione semi-generiche”. Il problema principale all’export, riconosce Zonin, è legato a barriere non tariffarie: da una parte, il presidente di UIV lamenta “carichi eccessivi di autorizzazioni, legate anche alla norme sul bio-terrorismo”, definiti “appesantimenti burocratici”, che hanno un impatto negativo in particolare per le aziende più piccole. Un altro intervento dovrebbe riguardare le pratiche enologiche, “perché noi aderiamo all’Organizzazione internazionale della vigna e del vino (www.oiv.int), mentre gli USA ne sono usciti” spiega Zonin. Nel biologico, però, dal 1° giugno 2012 è possibile esportare negli USA il vino certificato nell’UE, grazie ad un accordo di equivalenza reciproca. Un agreement frutto di un negoziato settoriale, “forse più rapido, auspicabile”, anche se -secondo Zonin- “riuscire ad inserire il vino nel negoziato bilaterale complessivo potrebbe portare a maggiori vantaggi per l’Italia”. Sono gli Stati Uniti d’America, infatti, a frenare.

Allargando lo sguardo a tutto il comparto agro-alimentare (l’export verso gli USA vale per l’Italia circa 1,9 miliardi di euro tra gennaio e agosto 2014), è difficile che l’Unione europea raggiunga un accordo valido sul fronte della protezione dei prodotti tipici. Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare, spiega ad Ae che tra i “freni” a un’ulteriore crescita dell’export c’è una “difesa del tutto insufficiente delle identità dei nostri prodotti, primi in Europa in fatto di denominazioni protette (Dop, Igt, Sgt, cioè specialità tradizionale garantita). Il mercato USA è quello in cui la contraffazione e l’Italian Sounding raggiungono le soglie più elevate”. Ci sono poi dazi, ad esempio sull’export di pasta, dolciario, sul tonno in olio d’oliva. Secondo Scordamaglia, tuttavia, “le vere barriere sono quelle non tariffarie”, e tra questi ricorda i “divieti di importazione per la carna bovina e i prodotti a base di carne bovina dell’UE”, o le norme che impongono di lavorare i suini esportati all’interno di stabilimenti approvati dal Dipartimento di agricoltura USA. Anche Sistema Moda Italia, l’associazione che in seno a Confindustria rappresenta il settore tessile-moda italiano (export complessivo a 1,3 miliardi di euro nei primi nove mesi del 2014), dopo aver individuato una serie di “limiti” all’export legati a profili daziari (che per alcuni prodotti, come gli abiti maschili in lana restano alti, intorno al 20%), passa in rassegna numerosi ostacoli non tariffari, che riguardano -in particolare- la mancata convergenza regolamentare (sulle etichette, sui vestiti per bambini o sul livello di infiammabilità) o la protezione di certe “nicchie di mercato”, come quella che prevede l’utilizzo di prodotti interamente realizzati (compresi i semilavorati) negli USA nell’ambito militare. Per quanto riguarda la cosmesi, l’export italiano verso gli Stati Uniti nel 2013 è stato di circa 215 milioni di euro, mentre il valore complessivo del mercato è di 47 miliardi di euro.

Anche in questo settore, spiega ad Ae Cosmetica Italia (www.cosmeticaitalia.it), il TTIP è visto come “un’opportunità per risolvere le divergenze normative che da decenni costituiscono una barriera al commercio e all’innovazione”. Cosmetics Europe e l’omologa statunitense, PCPC (Personal Care Product Council) starebbero cooperando per fornire stimoli e spunti ai negoziatori di entrambe le delegazioni. Cosmetica Italia aggiunge un elenco di voci da indirizzare nella lista “mutuo riconoscimento e/o armonizzazione”, dagli ingredienti alle procedure di testing, dalle etichette alla classificazione come farmaci (negli USA) di prodotti che nell’UE sono cosmetici (come i solari o gli anti-forfora).

Dagli shampoo alle automobili, la “ricetta” non cambia. “La massima parte della componentistica sui due lati dell’Atlantico è identica” spiega ad Ae Roberto Vavassori, presidente di ANFIA, l’Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica, che con 240 aziende associate rappresenta l’intera filiera automotive italiana (1,2 milioni di addetti, di cui 275.000 nella filiera produttiva) ed è una delle principali associazioni di categoria di Confindustria. “Ad essere diversi sono perlopiù i requisiti di omologazione -aggiunge-. Solo a titolo di esempio, negli USA gli airbag si testano con le cinture slacciate, mentre in Europa è richiesto che siano allacciate”. L’export verso gli Stati Uniti della componentistica prodotta in Italia arriva a 1,2 miliardi di euro (dato 2013). E -secondo Vavassori- “se non ci fossero queste ‘gabelle regolamentari’ potrebbe crescere del 40 per cento”. Ammette, però, che “oggi siamo molto distanti”. Vavassori ha partecipato a una missione con Calenda, negli USA, incontrando think tank, senatori ed alcune controparti, tra cui gli omologhi americani. “Le priorità dell’agenda politica -commenta- sembrano non coincidere”. Difficile chiudere un trattato così complesso entro fine 2015. Poi per gli Stati Uniti inizia un anno elettorale. E il TTIP resterà una chimera.

 

L'accordo in giudizio

Trade, commercio, and Investment, investimenti, stanno gli uni accanto agli altri nel nome dell’accordo di partenariato economico che l’Unione europea sta negoziando con gli Stati Uniti d’America. Gli USA rappresentano il primo mercato per l’export dei Paesi dell’Unione europea, con 484 miliardi di euro nel 2013.

Per favorire la liberalizzazione degli scambi la nuova partnership -i cui negoziati sono stati avviati nel luglio del 2013 e dovrebbero durare un paio d’anni-, puntano ad eliminare tutte le regolazioni non necessarie e le restrizioni agli investimenti e ad “armonizzare” i regolamenti “in un ampio spettro di settori economici” (che vanno dall’agroalimentare alla cosmetica, dalla componentistica auto al tessile, dai servizi agli appalti pubblici). Sul fronte della protezione degli investimenti, invece, il tema più controverso è senz’altro quello collegato alla previsione di un tribunale “speciale” per le imprese, un meccanismo che in inglese si chiama Investor-to-State Dispute Settlement (ISDS). Sarebbe una sorta di “giudice” privato, chiamato a decidere tutti gli arbitrati sugli investimenti in cui le multinazionali potrebbero portare in giudizio un Paese contraente qualora questi cambi le sue legislazioni ambientali, sociali e di sicurezza, impattando in qualche modo sui profitti attesi dai capitalisti a stelle e strisce. Il 19 gennaio, a due settimane dell’ottavo round negoziale, il vice-presidente della Commissione europea, Frans Timmermans, ha spiegato in un’audizione al Parlamento europeo che anche sull’ISDS le parti sono molto lontane.

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