Se ne parla o se ne sente parlare ma pochi sanno di cosa si tratta e quanto peso può avere nelle nostre vite. È il Transatlantic trade and investment partnership, altrimenti noto come Ttip. (http://www.acli.it/i-temi/economia/9548-ttip-viaggio-intorno-ad-un-trattato-controverso#.VLi__Xuzk4A)

Giuseppe Marchese e Federica Volpi

Il Trattato transatlantico sul commercio e sugli investimenti coinvolge gli Stati Uniti e l’Unione europea che nel 2013 decidono di avviare un negoziato che avrebbe dovuto essere breve (18 mesi) per garantire all’accordo l’appoggio della Commissione Barroso e dell’amministrazione Obama. Finora si sono svolti sette round di discussioni (l’ultimo ad ottobre 2014) ma la strada sembra ancora lunga, anche perché la resistenza politica all’accordo in Europa sembra aumentare. L’11 ottobre scorso in 21 Paesi dell’Unione decine di migliaia di cittadini sono scese in piazza in circa 400 azioni coordinate contro il Ttip.

Ufficialmente il trattato ha lo scopo di eliminare quelle che vengono definite “barriere non tariffarie” agli scambi tra Usa e Ue.

Ovvero rimuovere quelle differenze normative che oggi rendono difficili gli scambi economici di ogni genere, per lasciare ampio margine agli investimenti e facilitare i reciproci interessi anche per la partecipazione di imprese multinazionali agli appalti pubblici. Ma secondo alcuni osservatori il reale intento consiste nel tentativo geopolitico di strutturare un più solido legame strategico tra Stati Uniti e Unione Europea per far fronte alla concorrenza globale delle cosiddette “economie emergenti”, in primis quelle dei Brics.

Secondo i sostenitori dell’accordo esso avrebbe significative ricadute per l’economia creando un’area che rappresenterebbe circa il 40% del Pil mondiale e il 30% del commercio Internazionale. Nel definire standard comuni, ne beneficerebbero anche i produttori terzi. Insomma, gli ipotetici vantaggi dell’accordo, tradotti in numeri, sarebbero: 20% in meno di barriere tariffarie, 187 miliardi di euro il guadagno stimato per la Ue, 126 miliardi di dollari per gli Usa; 500 euro l’anno il risparmio per ogni famiglia europea. Circa mezzo punto percentuale di Pil in più all’anno per la Ue, poco meno per gli Usa; +18% le esportazioni, 400mila posti di lavoro in più; +4,9% la crescita del Pil in Italia e 30mila posti di lavoro in più.

Secondo gli oppositori, per lo più appartenenti a centinaia di organizzazioni della società civile, le criticità dell’accordo sono molte. Alcune di queste preoccupazioni meritano un approfondimento.

Ad esempio, la clausola Isds (Investor-State dispute settlement) è introdotta per la risoluzione delle controversie tra investitori e Stato e prevede un tribunale arbitrale a cui le imprese potrebbero ricorrere qualora ritenessero che gli Stati non rispettino i principi del libero scambio contenuti nell’accordo. Un tale organo di giustizia consegnerebbe nelle mani delle multinazionali le chiavi della legislazione europea sul lavoro, servizi e industria, poiché le norme nazionali che verrebbero aggirate sono volte a tutelare l’interesse pubblico (protezione sociale, sanitaria, ambientale), ed esporrebbe gli Stati al rischio di dover versare enormi risarcimenti o alla rimozione delle norme medesime. Il nocciolo del trattato, quindi, non è la diminuzione delle tariffe, già quasi nulle, bensì l’eliminazione delle “barriere normative” che limitano profitti potenzialmente realizzabili dalle società transnazionali, spianando la strada all’affermazione del principio “profits before people”.

Un esempio di ciò che può produrre la clausola Isds e l’eliminazione delle tutele normative l’ha fornito, nei mesi scorsi, la vicenda che ha visto protagonista il gruppo Veolia. La multinazionale ha in gestione lo smaltimento dei rifiuti ad Alessandria, in Egitto, e ha citato davanti al Centro internazionale per la risoluzione delle controversie relative agli investimenti (Cirdi) della Banca mondiale lo Stato egiziano per aver aumentato i salari del settore pubblico e privato al tasso d’inflazione, compromettendo – così sostiene Veolia – i suoi margini di profitto. Con le misure proposte dal Ttip per la protezione degli investitori qualsiasi “peggioramento” (per l’investitore) delle condizioni contrattuali può dar luogo a richieste di risarcimento. Questo meccanismo, se entrasse in funzione, avrebbe una forza dirompente dal punto di vista delle aspettative e delle azioni governative.

Un altro tema caldo è quello della sopravvivenza dell’agroalimentare, oggi garantito e sussidiato dalla poderosa politica agricola comune Ue e dalle denominazioni protette. I prodotti alimentari e i semi in Europa sono protetti dal punto di vista commerciale e sanitario. A seguito dell’introduzione dell’accordo potremmo essere invasi da prodotti americani concorrenziali ma senza alcuna origine controllata né garanzia di qualità (per lo più vietati in Europa) e senza indicazioni in etichetta.

Questa armonizzazione potrebbe avere conseguenze anche nei campi dei diritti sul lavoro, la tutela dei consumatori e dell’ambiente, che in Europa hanno standard più elevati, spesso frutto di battaglie sociali. La scuola e la sanità potrebbero essere esposte alla concorrenza con derive fuori controllo a discapito del welfare.

Rispetto a questi temi le risposte sono nulle o non soddisfacenti. E non concorre a fugare i dubbi la segretezza e la scarsa trasparenza che ha caratterizzato le trattative.

Finora la retorica della competitività economica per superare la crisi e le politiche di austerity sono state usate per mantenere il silenzio intorno al negoziato e accelerarlo. Ma ciò non è sufficiente a rendere potabile un accordo che presenta tante criticità e che ha, peraltro, diversi cloni. Infatti, insieme al Ttip, la Ue sta negoziando il Tisa (Trade in services agreement - Accordo di commercio dei servizi), che vede coinvolti 50 Paesi tra cui Usa e Ue, e il Ceta (Comprehensive economic and trade agreement), con il Canada. Il primo per liberalizzare gli scambi di servizi con modifiche nelle norme per ciò che concerne: le licenze, i servizi finanziari, le telecomunicazioni, il commercio elettronico il trasporto marittimo, il trasferimento temporaneo di lavoratori all’estero ai fini della prestazione dei servizi. Tale accordo integra il Ttip, ricalcando accordi pre-crisi e minacciando di rimuovere norme introdotte in seguito alla crisi (limiti alle dimensioni degli istituti finanziari), e di puntare alla privatizzazione della previdenza e delle assicurazioni, alla liberalizzazione totale delle operazioni offshore nei paradisi fiscali, all’assenza di autorizzazioni per nuovi strumenti finanziari (derivati) e di regolamentazione per l’attività dei consulenti finanziari. Il secondo per garantire la mobilità lavorativa, gli investimenti privati e, in generale, lo scambio di prodotti e servizi tra le due parti. L’accordo riguarderebbe, tra l’altro, lo sfruttamento delle risorse energetiche, forestali e agricole del Paese nordamericano, nonché le politiche di scambio commerciale provenienti da e diretti verso il Canada, con molti dubbi a riguardo.

Al di là dei dettagli degli accordi, alcuni rilievi generali devono essere sottolineati. È molto forte, in effetti, il sospetto che tali trattati mirino ad assicurino privilegi per le multinazionali (a danno delle piccole aziende), che sono le loro più forti sostenitrici, e che ciò spinga verso standard di qualità ai livelli più bassi possibili. Altrettanto forte è l’impressione che si vogliano riproporre logiche neoliberiste o ultraliberiste della speculazione e dell’indifferenza sociale e ambientale, con la parallela rimozione del ruolo dei governi nella finanza. Il rischio grande, in sostanza, è di veder determinate le politiche economiche dei Paesi a capitalismo avanzato senza che si passi per il controllo democratico. In altre parole, sembra smarrito l’obiettivo di riportare a livelli più sostenibili – sia per il bene comune che per l’efficienza delle economie reali – la crescente ineguaglianza sociale fatta di poveri sempre più numerosi e di pochi che continuano ad accumulare ricchezza e reddito.

I decisori politici europei sono chiamati al confronto e speriamo accolgano le numerose sollecitazioni della società civile in termini di trasparenza dei negoziati e di un dibattito pubblico diffuso. Del resto, alcuni aspetti dell’accordo stanno apparentemente provocando tensioni e spaccature anche all’interno degli organi dell’Unione.

Le Acli sono presenti e vigili rispetto a questa partita, allo scopo di contrastare derive antidemocratiche e dannose per i cittadini, specie per coloro che appartengono agli strati popolari del Paese e dell’Europa.

L’attenzione dell’associazione al tema è, del resto, testimoniata dalle affermazioni del presidente nazionale Gianni Bottalico, che nell’Incontro nazionale di studi dello scorso settembre, ha dichiarato in merito: «siamo in un tempo di grandi scelte. Sono percepibili le manovre dei grandi centri di potere finanziario per mantenere una posizione di predominio. In particolare l’Europa rischia di pagare un prezzo molto alto a queste strategie, perché, a differenza di altre aree del mondo viene considerata assoggettabile dai fautori di un’economia fondata sull’idolatria del profitto. Questo è il senso di alcuni negoziati in corso in segreto tra gli Stati Uniti e l’Unione europea, in particolare di quello sul Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti, con il quale si mira ad aggirare le legislazioni nazionali che fanno da argine ad una completa privatizzazione di servizi della sanità, dei trasporti, dell’acqua e dell’energia, e che tutelano i lavoratori, i consumatori e i beni pubblici. Credo che non possiamo tenere fuori dalla nostra riflessione e dal nostro dibattito associativo un tema come questo, così pieno di conseguenze per il futuro dei cittadini, per il futuro della democrazia ma anche per il futuro della stessa Europa. Chiediamo che i capitoli del Trattato transatlantico siano resi pubblici prima della loro approvazione da parte della Commissione e del Consiglio europeo e che gli eventuali accordi vengano sottoposti al voto dei Parlamenti nazionali e che siano passibili anche di referendum popolare».

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