L’Imam vive in una villetta alla periferia di Parigi, dove ogni giorno s’inginocchia in preghiera accompagnato dai suoi fedeli. Ha mani nodose, un volto di pietra, siede granitico sulla sua sedia dall’alto schienale. Occhi vitrei, labbra immobili, barba lunga. Incarna la pura forza elementare che si muove senza movimento, agisce senza azioni, parla senza pronunciare parole. (
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Marco Belpoliti
Dice l’Imam: “Noi faremo la rivoluzione, che sarà la rivolta non solo contro una tirannia, ma contro la storia”. Il suo narratore aggiunge: “La Storia è ciò che ubriaca, è la creatura e il territorio del diavolo, del grande Shaitan, è la più grande delle menzogne – progresso, scienza, diritti – alle quali l’Imam ha deciso di opporsi”. Siamo al centro della narrazione di Versi satanici, il romanzo pubblicato alla fine degli anni Ottanta da Salman Rushdie che gli è costato la fatwa, ovvero la condanna a morte da parte dell’ayatollah Khomeini, leader politico e capo religioso, vincitore della prima rivoluzione contro la Storia nell’età postmoderna. Di lui parla Rushdie nel suo romanzo considerato blasfemo, per aver descritto Maometto, la vita e le sure ispirate al fondatore della nuova religione dal Demonio, in modo irriguardoso a parere dell’ayatollah e del clero iraniano.
Sono trascorsi quasi ventisei anni e un altro scrittore, Michel Houellebecq ci presenta in Sottomissione (Bompiani) una situazione quasi ribaltata. L’Islam non è più là, realtà presente, ma anche assente, perché lontana, nonostante che nella Londra di Rushdie abitino ferventi islamici. Ora l’Islam è qua, diventando nella distopia di cui parla Stefano Chiodi nel suo articolo, la realtà presente cui la Francia, l’Occidente in generale, è invitata a convertirsi, ovvero a sottomettersi, come suggerirebbe la traduzione della parola Islam. Cos’è accaduto nel frattempo? C’è stato l’11 settembre, gli attentati che negli ultimi quattordici anni hanno insanguinato il mondo, due guerre nel Golfo, le crisi mediorientali, Gaza, la Siria, l’Isis, le decapitazioni mediatiche dei giornalisti e cooperanti occidentali, fino a questo terribile attentato, alla strage nella sede della redazione di Charlie Hebdo, nel cuore dell’Europa. Il romanzo di Houellebecq è una sorta di sintomo di quello che è accaduto, e come tale va letto e interpretato, al di là dei suoi evidenti meriti letterari, della bravura e soprattutto della capacità che lo scrittore francese possiede di dare forma ai pensieri segreti, alle paure più profonde degli occidentali, ovvero di portare alla luce l’intreccio di angosce e desideri che s’agitano nel cuore degli abitanti della vecchio continente. Del resto, un Houellebecq in America non sarebbe neppure pensabile, con la sua ambivalenza, il portato di cinismo, aggressività e autolesionismo, che i suoi romanzi contengono, come conferma quest’ultimo scandaloso volume.
Il problema che suscita l’attentato, come il libro che l’ha anticipato, se così si può dire, è quello dell’eccesso. Non si può non vedere nel gesto criminale, e in modo diverso anche in Sottomissione, la presenza di un eccesso. Vale la pena di leggere quanto accade in questa chiave, per rispondere a
una domanda che Stefano Chiodi si pone nel suo articolo: “Come può una forza che corrompe, uccide, umilia, depreda, sradica e nega alla vita ogni dignità apparire così seducente in nome di questa stessa vita?”. Sta parlando del fatto che gli assassini, con ogni probabilità giovani nati e cresciuti in Europa, sono spinti a uccidere da un’ideologia che è la negazione della vita stessa. E analogamente, come può uno scrittore evocare nel suo romanzo distopico come positiva una realtà politica e religiosa che distrugge quello che è stata la bandiera della Francia per almeno due secoli e mezzo: la libertà?
Sottomissione racconta una vicenda opposta a quella di I versi satanici. In una Francia attraversata da una crisi profonda il partito islamico moderato, Fratellanza mussulmana, di Mohammed Ben Abbes ha vinto le elezioni contro il Fronte National di Le Pen, e s’instaura una repubblica islamica. Il protagonista del romanzo, un intellettuale come Houellebecq, sua controfigura, si sottomette al nuovo regime rinunciando a tutti i valori dei Lumi: libertà, agnosticismo, democrazia, secolarismo. La nuova età reca con sé la vittoria di una visione del mondo che, come ricorda Emmanuel Carrère nella sua recensione al libro, comporta un adeguamento al mondo così com’è, emancipandosi dal peccato originale dell’Occidente: la libertà. Il romanzo contiene molte altre cose, perché le parti migliori sono proprio quelle che, come in altri romanzi di Houellebecq, riguardano l’ambivalenza dell’individualismo contemporaneo, il suo cinismo, la possibilità di coltivare il piacere, e al tempo stesso d’allontanarlo attraverso lo schifo e il disprezzo di sé. Houellebecq è un genio nel descrivere il masochismo occidentale, la sua volontà di godere facendosi del male, d’esercitare nel contempo, come puro piacere, forme di sadismo verso corpi, oggetti, idee. Il suo fascino sta proprio in questo nodo per cui l’apocalisse evocata o sperimentata procura con la paura un piacere insopprimibile, e persino un godimento, come del resto è accaduto in Occidente dopo l’11 settembre, ad Abu Ghraib come in camera da letto. Houellebecq dà forma al perfetto prototipo del deluso occidentale, che ha anche in Italia i suoi imitatori di seconda o terza fila. Il punto è la questione dell’eccesso: eccesso degli attentatori che uccidono i redattori di un giornale satirico, e l’eccesso del protagonista del libro, che sentendo finito e spacciato il mondo da cui proviene, passa dall’altra parte e assume con predetto masochismo il punto di vista del “nemico”.
Lo psicoanalista inglese Adam Phillips ha tenuto qualche anno fa cinque conferenze alla BBC dedicate al tema dell’eccesso, raccolte poi in un libro dal titolo Sull’equilibrio (Ponte alle Grazie). Dopo aver avvertito gli ascoltatori, sin dalla prima frase, che “Niente ci rende più eccessivi dei discorsi sull’eccesso”, Phillips prova a inoltrarsi dentro questa complessa questione. Carrère in uno slancio di sincerità nella sua recensione a Houellebecq scrive: “in realtà non so bene cosa penso su questo argomento scivoloso”. Parla del punto di vista del collega, ma anche di Limonov, protagonista del suo romanzo omonimo, e di se stesso, attratto dal punto di vista opposto al proprio: vorrebbe convertirsi all’eccesso dell’altro. Phillips distingue prima di tutto tra estremismo ed eccesso. Dice: siamo estremi quando spingiamo le cose al limite, diventiamo eccessivi quando le spingiamo oltre il limite. Esempi di eccesso lo psicoanalista inglese li scorge intorno a sé: straordinario consumismo delle società occidentali, fanatismo religioso e antireligioso della cultura contemporanea. La sua prima definizione di eccesso è perfetta per interpretare non solo l’azione omicida dei killer islamici (uso questo aggettivo ben consapevole che si tratta di una adesione a una religione che non è vissuta dai più in questa forma estrema), ma anche la reazione di parecchi scrittori e intellettuali occidentali.
L’eccesso “è la libertà di uscire”. Da cosa? Dai limiti, dalle abitudini, dalle regole, dalla ragione. L’eccesso abbraccerebbe, nella lettura che ne dà Phillips, tutta una serie di esperienze che vanno dalla esagerazione al mancato rispetto della legge, dall’orgoglio al genocidio. Houellebecq ne ha dato nei suoi romanzi precedenti, e ne dà anche qui, in Sottomissione, esempi perfetti, il cui più evidente è il sesso, l’esercizio senza freni del piacere sessuale. Secondo Phillips sia l’anoressica che il kamikaze sono forme di questo eccesso, così come il bambino che reclama attenzione o il giocatore d’azzardo compulsivo. Non c’è dubbio che in una situazione come l’attuale, in un Occidente spaventato dallo spettro della crisi economica, dalla povertà, dal dominio delle multinazionali dell’informazione e dell’intrattenimento, dal pensiero unico, dal consumismo capitalistico, la tentazione dell’eccesso si fa sempre più incalzante e drammatica. Eccesso omicida ed eccesso reattivo dei partiti xenofobi e populisti. Naturalmente bisogna sempre, come insegna il pensiero critico, considerare che “ciò che è eccessivo per qualcuno potrebbe essere del tutto normale per un altro” (Phillips).
Dal loro punto di vista i fanatici islamici non esagerano, così i terroristi, che traggono le loro ragioni dalle ingiustizie cui reagiscono, o che ritengono di aver subito. A ben guardare ci sono molti dei nostri conflitti politici e religiosi, aggiunge lo psicoanalista, che possono riassumersi nel tentativo che qualcuno compie per convincere qualcun altro che si sta comportando in modo eccessivo: eccessivamente crudele, eccessivamente irrispettoso, eccessivamente ingiusto. E nel punire chi si ritiene eccessivo si adottano risposte a sua volte eccessive. Mi rendo conto che proprio queste sono le questioni che Houellebecq condanna nel suo romanzo, dove il paradosso della “sottomissione” appare provocatorio, perché in realtà, come hanno scritto in diversi recensori, vorrebbe provocare una reazione che scuota lo stato di crisi endemico dell’Occidente, anche se non lo dice apertamente. Houellebecq è uno scrittore, non un politico. Il suo compito è farci pensare, riflettere. E ci riesce. L’eccesso è contagioso, implacabilmente contagioso. Alain Badiou, filosofo francese, citato da Phillips, ha scritto una volta che “tutte le verità derivano da conseguenze estreme”. Verissimo. E anche da conseguenze eccessive. Nelle sue conversazioni radiofoniche, il cui scopo, come accade per molto del sapere psicoanalitico, non è di dare delle risposte, ma di porre delle domande là dove ci sono solo risposte, Phillips cita una frase di un altro psicoanalista, Jacques Lacan. Non so da dove l’ha tratta, e se la traduzione sia giusta, ma suona perfetta: “Non siamo mai sopraffatti dagli eccessi di qualcun altro, siamo sopraffatti sempre e solo quando gli eccessi degli altri coincidono con i nostri”.
Sembra un paradosso ricordare una simile frase in questo doloroso momento, davanti a una strage così sanguinosa. Ma c’è qualcosa di vero nel detto dello psicoanalista francese, e che riguarda da vicino il romanzo di Houellebecq, il suo nucleo più profondo e coinvolgente. Lo dice bene Phillips: da un punto di vista psicoanalitico gli eccessi degli altri ci disturbano, ci innervosiscono, ci provocano, perché rivelano qualcosa che ci tocca da vicino, qualcosa che riguarda le nostre paure e i nostri desideri. Questo è il cuore di Sottomissione, dove il desidero di sottomettere l’altro si rovescia nel suo contrario. Il desiderio di fare del male conduce al suo opposto: ci si fa del male. Il Dio Islamico evocato dal narratore del romanzo è, come dice Carrère, il padrone dell’erotismo, ovvero il grande Fallo che aleggia nei romanzi di Houellebecq come un fantasma tra l’omoerotico e il sadomaso. Il suo racconto dà forma a questo desiderio, là dove l’Occidente, nonostante i suoi evidenti eccessi – alimentari, sessuali, economici, politici, militari – manifesta di aver rinunciato, almeno nella sua cultura migliore, autocritica e non autodistruttiva, al sogno sadiano della sottomissione dell’altro, del diverso. Non che non ci sia questa pulsione, come ha spiegato Pasolini in Salò-Sade, ma non è l’unica o, almeno non sempre, quella vincente. “Se gli eccessi degli altri rivelano il fanatico che è in noi, rivelano anche quanto sia affascinante e sottile il fanatico”, scrive Phillips. Le nostre reazioni agli eccessi degli altri ci manifestano i nostri conflitti, continua. Nessuno vuole diventare un kamikaze o un killer animato da fantasie sterminatrici; tuttavia in fondo desidera qualcosa di così importante nella propria vita da essere pronto a perderla. Non c’è più un sogno in Occidente, qualcosa per cui rinunciare al quieto vivere quotidiano: un ideale. Qualcosa che scuota e renda sanamente eccessivi. Questo farebbero i giovani venuti dalla Siria, o che là vanno dalle città europee, e anche italiane.
In fondo, la distopia proposta dal romanzo di Houellebecq, dice Carrère, il nuovo assetto politico e religioso della Francia, ha questo di positivo: ci fa capire che arrendendoci all’eccesso dell’Islam rinunceremmo al nostro di eccesso, per vivere in pace in un’Europa che avrà il suo baricentro verso Sud, tanto da diventare la culla di una nuova religione sincretica. Per cui cosa importa consegnare le donne nelle case, farle indossare il velo, avere un harem, educare i figli su valori diversi da quelli della libertà, se tutto questo assicura pace a tutti? La convinzione di Houellebecq è che l’Occidente sia perso, che non abbia più futuro, e la depressione il nostro unico destino. Perché resistere? Perché tutto ciò non risolve il problema dell’eccesso, quello degli altri, come il nostro. “Ogni nostro eccesso è il segno di una privazione ignota”, conclude Phillips. Davanti all’attacco assassino alla rivista satirica francese non è tanto la bandiera della libertà che bisogna issare, ma il nostro pensiero critico, che non indietreggia nell’indagare quanto di oscuro c’è in noi. Solo così l’eccesso non l’avrà vinta su di noi, e in noi.