"L’obiettivo della Presidenza italiana dell’Ue non è stato centrato". (http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=4924)

Europa e Stati Uniti discutono un accordo transatlantico per liberalizzare commercio e investimenti, ma probabilmente non lo firmeranno mai. Intanto secondo una ricerca dell'Università di Tufts, nel Massachussets, "l’Europa rischia di perdere 583mila posti di lavoro”.

Con un commento di Antonio Tricarico

L’accordo transatlantico sul commercio e gli investimenti, meglio noto con il suo acronimo inglese TTIP, genera preoccupazioni e conflitti. A esprimere dubbi non sono solo i cittadini europei, per i possibili impatti sulla legislazione ambientale, sociale e del lavoro, che rischiano di essere sacrificate per favorire i diritti degli investitori e delle multinazionali. Oramai, è scontro anche tra i governi europei e tra questi e la Commissione, con tensioni mai viste in materia commerciale da decenni. La Presidenza italiana di turno dell’Ue (che si chiude il 31 dicembre) ha scientificamente buttato benzina sul fuoco politico europeo, pensando di trarne vantaggio nell’accordo finale sui pochi dossier a cui è davvero interessato -quali la protezione delle denominazioni di origine dei prodotti di gusto del made in Italy e alcune aperture degli appalti pubblici Usa per le imprese del Belpaese-. Eppure la realtà dei fatti indica che questa aggressiva politica negoziale all’italiana, da veri “rottamatori” delle formalità europee, potrebbero ritorcersi contro il nostro Paese già durante il mese di dicembre.

Del resto, sin dalla visita del Presidente Usa Barack Obama in Italia, nel marzo scorso, il primo ministro Matteo Renzi aveva con nettezza affermato che la chiusura del negoziato del TTIP era tra le priorità del semestre a guida italiana.

E l’Italia, conscia di aver poco capacità di influenzare Bruxelles sulle sue priorità commerciali, come l’agricoltura, ha pensato di sfruttare a suo vantaggio la vacatio istituzionale collegata alle elezioni europee e alla nomina, come sempre sofferta, della nuova Commissione europea. Palazzo Chigi ha stravolto l’assetto negoziale nella stessa Ue, provando ad accelerare i tempi di un accordo, che le prime battute negoziali avevano rivelato come difficile e lungo. Eppure, nonostante la battente campagna mediatica del governo italiano, già nella primavera scorsa l’esecutivo era ben conscio che un risultato politico a breve sull’ambizioso mandato negoziale dato alla Commissione UE non si sarebbe raggiunto.

E che a poco servivano, quindi, gli spot Rai pagati con i soldi della Presidenza UE o i mille convegni di think tank per dimostrare che “il TTIP non fa male”, ma tirerà l’Italia fuori dalla crisi in nome di una “internazionalizzazione del sistema Italia”. Così, anche di fronte alle debolezze politiche interne del Presidente Obama, inclusa la mancata autorizzazione a negoziare il TTIP con pieni poteri (la cosiddetta fast track) da parte del Congresso Usa, il governo italiano dietro le quinte ha puntato su un “TTIP light”, molto meno ambizioso, che decurtasse alcuni dossier negoziali spinosi, e che consentisse -anche con il consenso dell’opinione pubblica e settori scettici delle élite economiche italiane- di raggiungere in tempi brevi un accordo politico ad interim. Per arrivare a stringere mani e darsi pacche sulle spalle con gli altri governi, con l’annuncio della “missione compiuta”. Conseguentemente, i negoziatori italiani si sono mossi come mai in maniera autonoma, cercando di stabilire propri contatti a Washington, e alla fine hanno proposto al comitato per le politiche commerciali del Consiglio europeo una dichiarazione politica che di fatto ammorbidisse il mandato della Commissione, aprendo appunto all’idea di un “TTIP light”, ristretto a pochi settori e meno ambizioso. Non è un caso se il baldanzoso vice-ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda si è battuto con successo per desecretare ad ottobre il mandato originale del TTIP, anche se il testo -in realtà- era stato divulgato da più di un anno su vari siti web dalla società civile su imboccata di qualche fonte interna.

L’attivismo tricolore ha creato prima imbarazzo e poi rabbia alla Commissione europea, mai sfidata così apertamente nel suo ruolo guida del commercio internazionale per l’intera Unione. Arrivato, a novembre, il lussemburghese Jean-Claude Juncker alla guida dell’esecutivo di Bruxelles, la situazione è cambiata. Nonostante la nuova Commissione avesse essa stessa mandato segnali di ammorbidimento su alcuni dossier -a partire dal meccanismo di risoluzione tra multinazionali e Stati sulle dispute sugli investimenti esteri-, il Consiglio europeo ha sconfessato la strategia della Presidenza italiana. D’altronde Roma, con il suo testo autonomo, aveva messo in difficoltà Bruxelles, per altro senza prefigurare quali sarebbero stati i cambiamenti, seppur su un numero ridotto di dossier, che avrebbero potuto convincere Washington della bontà dell’accordo al ribasso, da raggiungere pur di salvare la faccia.

Il testo presentato dall’Italia è stato pesantemente emendato da molti Paesi membri, e sulla base di quanto letto da Altreconomia uscirà molto probabilmente nelle prossime settimane come l’ennesima ideologica chiamata ad ottenere il TTIP più ambizioso possibile per l’Europa. Una sconfitta politica senza precedenti per il governo Renzi e i suoi negoziatori, visti come dilettanti da più parti, costretti ora a chiudere all’angolo il semestre di presidenza Ue.

Dall’altra parte dell’Atlantico la situazione politica è diventata parimenti confusa. Nei primi round negoziali -con quello di ottobre 2014 siamo arrivati al settimo- è stato un gioco da ragazzi per i rappresentanti degli Usa snobbare le richieste degli omologhi europei, rispondendo con offerte molto meno ambiziose, soprattutto in materia tariffaria e di accesso al mercato.

Su altri dossier, quali le barriere non tariffarie e le regole, invece l’amministrazione a stelle e strisce non tollera sconti -si pensi ai servizi pubblici, o ai settori della chimica, dell’energia e dell’agricoltura-, e di fatto è pronta a negoziare il TTIP solo se sarà una versione strong, dura.

La sonora bocciatura di Obama -che ha perso anche il controllo del Senato alle elezioni di medio termine di inizio novembre- ha complicato ulteriormente il quadro. Gli analisti si interpellano sul perché un Congresso repubblicano, che è già in campagna elettorale per le elezioni presidenziali 2016, dovrebbe dare al democratico Obama il piacere di chiudere un TTIP che non necessariamente beneficerà tutti i settori dell’economia Usa. Va ricordato, infatti, che è stata l’Unione europea, questa volta, a chiedere aiuto agli Stati Uniti nelle crisi, invitando a negoziare un accordo di cui si parlava da venti anni senza alcuna decisione.

Se gli Usa accettano una Transatlantic Trade and Investment Partnership è perché vogliono che serva ai loro scopi, senza alcuna solidarietà per la vecchia Europa. L’obiettivo è uno: fissare nuovi standard globali, anche nelle legislazioni ambientali, sociali e del lavoro (e non necessariamente al rialzo rispetto a quanto vige oggi nei Paesi Ue) da imporre poi ai Paesi emergenti, facendo leva sulla forza del mega-mercato transatlantico. Con questi chiari di luna, l’ottavo round negoziale previsto a dicembre è stato annullato, e la prossima puntata sul TTIP rimandata al 2015. L’unica certezza è che l’obiettivo della Presidenza italiana dell’Ue non è stato centrato. Missione fallita.


Un trattato di storia

I negoziati tra Commissione europea e Stati Uniti d’America per un Transatlantic Trade and Investment Partnership sono stati avviati nel luglio del 2013. Dovrebbero durare un paio d’anni, con l’obiettivo di rimuovere barriere commerciali (tariffe, regolazioni non necessarie, restrizioni agli investimenti) e di “armonizzare” i regolamenti “in un ampio spettro di settori economici”.

Secondo il “mandato negoziale”, disponibile sul sito della Commissione europea, http://ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/ttip/, le tre componenti fondamentali dell’accordo riguardano l’accesso ai mercati (1), le barriere non tariffarie per l’accesso ai mercati (2) e i regolamenti relativi alla produzione di beni e servizi (3), ad esempio le misura tecniche o quelle fito-sanitarie.

Oltre a interventi relativi al commercio dei beni (come l’eliminazione di ogni imposta per l’importazione e l’eliminazione di eventuali misure di dumping), i negoziatori interverranno anche sul mercato dei servizi, di cui fanno parte anche quelli pubblici locali, con l’obiettivo di assicurare “the highest level of liberalisation captured in existing FTAs”, il più alto livello di liberalizzazione previsto dagli esistenti accordi di libero commercio, in linea con il vecchio negoziato GATS (General Agreement on Trade in Services), discusso in seno all’Organizzazione mondiale del commercio.

Durante il mese di dicembre, la Commissione europea dovrebbe rendere pubblici i risultati di una consultazione pubblica promossa tra i 28 Paesi membri nell’ambito del negoziato per l’accordo di partenariato transatlantico su commercio e investimenti, che riguarda l’Unione europea e gli Usa. I cittadini potevano esprimere il proprio parere su meccanismi di “protezione degli investimenti” e sull’istituzione di sistemi per la risoluzione delle controversie tra imprese (o meglio, investitori) e Stati, una sorta di “tribunale speciale” previsto dal TTIP (sta per Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership), secondo il mandato negoziale.

Tra i temi del sondaggio (12 in tutto) anche l’esigenza di garantire “non-discriminatory treatment for investors”, un trattamento non discriminatorio per le imprese che hanno sede negli Stati Uniti d’America. Le risposte sono state oltre 149mila, e di queste 180 provengono da organizzazioni non governative e 66 da associazione datoriali delle imprese europee.

Luca Martinelli

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