La nuova epidemia di Ebola, più diffusa del solito, ha acceso i
riflettori sulle condizioni sanitarie dell’Africa, come accade solo
quando si teme che tali focolai possano coinvolgere anche l’occidente.
In realtà, Ebola, non può rappresentare un problema per i paesi
sviluppati (l’effetto delle campagne giornalistiche è stato quello di
provocare un crollo delle prenotazioni turistiche in paesi lontanissimi
dai focolai dell’epidemia) ed è stato contenuto in maniera abbastanza
efficace nell’Africa stessa. E’ suonato, però, un potente campanello
d’allarme sulle drammatiche condizioni sanitarie di molti paesi africani
e sulle conseguenze che ciò comporta non solo in termini di salute ma
anche in termini economici. Basti pensare che il Pil dei tre paesi maggiormente colpiti subirà un calo del 2,7 % in Guinea, del 8,9% in Sierra Leone, del 11,7% in Liberia.
Non a caso si tratta di paesi appena usciti da terribili vicende di
guerra ma, proprio per questo, Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con
una iniziativa senza precedenti, il 18 settembre scorso, ha approvato
una risoluzione (la 2177) definendo l’Ebola un pericolo per la sicurezza
internazionale. E’ questo, infatti, lo strumento usato dall’Onu di
fronte ai problemi di guerra o terrorismo e tale scelta è stata fatta
proprio per enfatizzare la stretta connessione fra condizioni sanitarie,
impatto economico di esse, instabilità politica, violenza e terrorismo.
Bisogna
cogliere l’occasione di questa nuova attenzione provocata da Ebola per
affrontare effettivamente il gap esistente fra i nostri sistemi sanitari
e quelli africani. Non solo per ragioni umanitarie, di per sé evidenti,
ma per dare un contributo decisivo al decollo economico dell’Africa
che, secondo tutte le analisi e stime degli istituti internazionali, a
certe condizioni, oggi è possibile. In termini macroeconomici, infatti,
questo sta già avvenendo. Fra i 15 paesi che cresceranno maggiormente nei prossimi anni, la maggioranza si trova in Africa.
In molti paesi sta crescendo una classe media e si rafforzano le
istituzioni della società civile. Per la prima volta gli investimenti
diretti esteri stanno superando l’aiuto allo sviluppo. Ma, per
l’appunto, ciò accade a macchia di leopardo, con ampie aree segnate
ancora da instabilità e guerra e con grandi contraddizioni sociali e
disuguaglianze insopportabili anche nei paesi di maggior successo.
Tutto
questo richiede, innanzitutto, intelligenza politica da parte dei paesi
“avanzati” e dei grandi organismi decisori, ma anche un nuovo approccio
da parte degli altri protagonisti che, a diverso titolo, possono avere
un ruolo. Con un approccio non più basato sul semplice umanitarismo ma
sulla consapevolezza che, contribuendo a risolvere i problemi africani,
perseguiamo, con lungimiranza, anche il nostro interesse. Evitando
tragedie i cui effetti, inesorabilmente, ci raggiungono in casa e
creando nuove opportunità per una nostra rinnovata crescita (anche
economica) in un mondo più giusto ed equilibrato.
Una
tale iniziativa presuppone, necessariamente, un forte ruolo del settore
privato, come previsto, del resto da una recente Comunicazione della
Commissione Europea (“A stronger role of the private sector in Achieving
Inclusive and Sustainable Growth in Developing Countries”) che
individua anche una serie di strumenti finanziari a questo scopo. Nella
stessa direzione, oltre ad una maggiore cooperazione pubblico-privato,
sono auspicabili, in certi settori e con certe condizioni, anche nuove
forme di collaborazione tra privato profit e privato non profit.
Una
partnership alla quale le ONG, con la loro lunga esperienza nei paesi
partners , possono conferire conoscenza del territorio, relazioni di
lunga durata e una consolidata credibilità.
Mario Raffaelli
Presidente Amref Italia
Vice Chair del Board Internazionale di Amref