«Per il 60% degli italiani la povertà è un virus che può contagiare chiunque». Intrinseca solitudine e narcisismo sono la (non) risposta degli italiani alla crisi.
di Luca Aterini
Per la 48esima volta il Censis prende l’Italia tra le mani, e la rigira come fosse una sfera di cristallo. Dentro il suo rapporto sulla situazione sociale del Paese nel 2014 non descrive un bello spettacolo. «Si fa strada la convinzione che il picco negativo della crisi sia alle spalle: lo pensa il 47% degli italiani, il 12% in più rispetto all’anno scorso, ma ora è l’incertezza a prevalere». Dopo la paura della crisi, scrive il Censis, è «un approccio attendista alla vita che si va imponendo tra gli italiani». A prevalere in questa fase di decantazione è una chiusura in sé stessi: non la preparazione a un nuovo slancio di vitalità, piuttosto un arido accartocciamento.
«Siamo una società liquida che rende liquefatto il sistema. Senza ordine sistemico, i singoli soggetti sono a disagio, si sentono abbandonati a se stessi, in una obbligata solitudine: vale per il singolo imprenditore come per la singola famiglia. Tale estraneità porta a un fatalismo cinico e a episodi di secessionismo sommerso, ormai presenti in varie realtà locali».
Questa percezione di vulnerabilità porta «il 60% degli italiani a ritenere che a chiunque possa capitare di finire in povertà, come fosse un virus che può contagiare chiunque». Anche il grande capitalismo familiare italiano appare sotto assedio (quando non scappa, come nel caso Fiat), mentre «resta una carta vincente per il Paese il microcapitalismo di territorio». Anche in questo caso manca però intelligenza di sistema, che possa unire le forze – che ci sono.
L’attuale realtà italiana viene definita dal Censis come una «società delle sette giare, cioè contenitori caratterizzati da una ricca potenza interna, mondi in cui le dinamiche più significative avvengono all’interno del loro parallelo sobollire, ma senza processi esterni di scambio e di dialettica. Le sette giare sono: i poteri sovranazionali, la politica nazionale, le sedi istituzionali, le minoranze vitali, la gente del quotidiano, il sommerso, il mondo della comunicazione».
Ognuno recita quello che ritiene essere il suo ruolo, sempre più ridotto ad avanspettacolo, ma senza un’effettiva comunione (e mobilitazione) d’intenti. Una tendenza che, dalla politica, ai media e al sindacato, passando anche per una parte del mondo ambientalista, non risparmia nessuno. «Siamo un Paese dal capitale inagito anche perché non riusciamo ancora a ottimizzare i nostri talenti. Agli oltre 3 milioni di disoccupati si sommano quasi 1,8 milioni di inattivi perché scoraggiati. E ci sono 3 milioni di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare. È un capitale umano non utilizzato di quasi 8 milioni di individui. Più penalizzati sono i giovani» e, come sintetizza il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, «se le risorse liquide non si movimentano, restano sterili, sono solo cose».
Un vecchio vizio italiano si accentua e si fa cancro sociale in questi anni di crisi. «L’attendismo cinico degli italiani si alimenta anche della convinzione che in fondo ci sono alcune invarianti nei processi sociali che con la crisi finiscono per patologizzarsi. Tra i fattori più importanti per riuscire nella vita, il 51% richiama una buona istruzione e il 43% il lavoro duro, ma per entrambe le variabili la percentuale italiana è inferiore alla media europea». Soprattutto, scavando a fondo, sono numeri che nascondono forti contraddizioni. A contare magari è «l’istruzione», ma intesa come pezzo di carta. Il riferimento all’intelligenza come fattore determinante per l’ascesa sociale raccoglie infatti solo il 7% delle risposte su cosa sia necessario per emergere, in Italia: il valore «più basso in tutta l’Unione europea».
Senza saper trovare un proprio posto all’interno di una società scarna di punti di riferimento, la diretta conseguenza è quella di ripiegarsi in sé stessi. La (non)scelta, di fronte a una così bassa speranza nel futuro, è quella di farlo in modo non costruttivo. Anche la frequentazione dei social network può essere fonte per creare valore, ma l’utilizzo della Rete è prevalentemente sterile. Una tendenza mondiale, che ci vede in buona compagnia: come ha sottolineato l’Economist in un amaro gioco di numeri, se il popolo del Web globale avesse impiegato in lavoro il tempo speso a guardare il video di Gangnam Style (della durata di 4:12 minuti), avrebbe potuto costruire 20 nuovi Empire State Building, o 4 nuove repliche della grande piramide di Giza.
Più che altrove, in Italia la valvola di sfogo preferita alla percezione di una mancanza di futuro diventa il narcisismo. L’approvazione della comunità – della quale abbiamo bisogno, rimanendo animali profondamente sociali – la si ricerca proprio sui social network. «La pratica diffusa del selfie è l’evidenza fenomenologica della concezione dei media come specchi introflessi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con l’altro da sé».
Dall’altra parte dell’obiettivo con cui si scatta il selfie, spesso non c’è niente. «La solitudine è oggi una componente strutturale della vita delle persone: il 47% degli italiani dichiara di rimanere solo durante il giorno per una media quotidiana di solitudine pari a 5 ore e 10 minuti. È come se ogni italiano vivesse in media 78 giorni di isolamento in un anno, senza la presenza fisica di alcuna altra persona».
La soluzione, secondo il Censis, ammesso che ci sia, può essere solo politica. «Le sette giare vanno connesse tramite una crescita della politica come funzione di rispecchiamento e orientamento della società, come arte di guida e non coazione di comando, riprendendo la sua funzione di promotore dell’interesse collettivo». La politica in stile Renzi, per quanto vivace e volenterosa, si dibatte a ritmo di selfie e verticisimo al comando. Muovendosi a ritmo vorticoso non fa altro che rimanere ferma all’interno della sua giara.
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