Negli ultimi mesi ho preso in affitto una casa su Airbnb per pochi giorni, ho ascoltato musica su Spotify, ho usato solo la bici gialla del comune di Milano, ho preso un passaggio da Milano a Firenze su Blablacar, ho affittato per pochi minuti un’auto con Car2Go, ho chiamato un autista di Uber una notte che pioveva e ho finanziato un documentario attraverso una piattaforma di crowdfunding online. Inoltre, anche se io non ne ho ancora bisogno, conosco molti amici che hanno affittato scrivanie in un co-working. (
http://www.doppiozero.com/materiali/chefare/c-e-sharing-e-sharing)
Tiziano Bonini
Solo un anno fa, queste attività che oggi considero quasi un’abitudine, lo erano molto meno. Tutte queste attività vengono genericamente indicate come declinazioni di una economia emergente chiamata comunemente “Sharing Economy”, o meno comunemente, economia collaborativa, consumo collaborativo, economia della condivisione.
È vero, tutte queste attività hanno in comune una cosa: la messa in condivisione di risorse private (la mia auto, la mia scrivania, la mia musica, la mia casa, la mia bici, ecc.), pratiche che già da tempo erano possibili. Ciò che però è nuovo nella “sharing economy” è la scala a cui avvengono questi scambi. Le nuove piattaforme online di social networking permettono una mole di scambi non più soltanto tra amici e vicini ma tra persone completamente estranee, in molte parti del mondo.
Sta succedendo davvero? L’economia dei consumi sta davvero transitando “dal possesso all’accesso”, come aveva preconizzato Jeremy Rifkin anni fa? Su Wired alcuni giorni fa è uscito un articolo dal titolo:
“Apple e Amazon hanno un problema: le persone non vogliono più comprare cose”. Apple ha dichiarato che le vendite di musica digitale sulla sua piattaforma iTunes sono scese del 14% dall’inizio del 2014, mentre Spotify, il servizio di streaming musicale più popolare, nel 2013 ha aumentato del 43% i propri incassi e ha chiuso il proprio
bilancio in attivo per la prima volta da quando è stata fondata. Alcuni analisti del settore musicale stimano che entro la fine del 2014 saranno 37 milioni le persone nel mondo che pagheranno una sottoscrizione ad un servizio di streaming musicale.
C’è un cambio culturale in atto, che molti giornali e studiosi americani attribuiscono alla generazione dei millennials e all’aumento del lavoro free lance. Negli Stati Uniti ormai un terzo della forza lavoro è costituito da free lance e lavoratori temporanei. Nel 2025 il 75% della forza lavoro sarà costituita dai millennials, la maggior parte dei quali già oggi lavora come free lance. Secondo un’
inchiesta della Freelancers Union (un’associazione sindacale no profit che raccoglie circa 250.000 lavoratori free lance americani) 9 su 10 dei propri iscritti non tornerebbe mai al lavoro fisso. La giornalista americana del Los Angeles Times, Sara Horovitz, in un fortunato articolo dal titolo
America, Say Goodbye to the Era of Big Work sostiene che i millennials tendono a “dare maggiore valore alle esperienze piuttosto che alle cose”.
L’etichetta “freelance” è un po’ ingannevole in realtà, perché non distingue tra precariato di bassa fascia e free lance di alta fascia: entrambi lavoratori “autonomi”, entrambi lavoratori a progetto, ma i primi hanno poca scelta mentre i secondi hanno largo controllo sul proprio lavoro. I primi sono dei free lance per obbligo, i secondi lo sono per scelta. Quando ti va bene sei un free lance, quando invece non entra nemmeno un lavoro scivoli subito nella posizione del precario, per intenderci. Da un punto di vista socio-economico è sbagliato assimilare i primi ai secondi e considerarli tutti free lance, o tutti classe creativa, come ha fatto il sociologo Richard Florida, ma da un punto di vista quantitativo può essere utile per un attimo vederli tutti assieme, come forza lavoro non più vincolata ai tempi e ai modi di produzione tradizionali.
La narrazione dello stile di vita delle nuove generazioni di consumatori/lavoratori enfatizza ovunque la leggerezza, il nomadismo, il rifiuto della proprietà e del lavoro fisso come valori positivi: Prerna Gupta è una giovane imprenditrice e “angel investor” di successo. Ad ottobre ha scritto un articolo per Techcrunch dal titolo molto furbo:
Airbnb Lifestyle and the rise of the Hipster Nomad. Nell’articolo racconta come lei e suo marito abbiano deciso di passare l’ultimo anno affittando solo case su Airbnb e viaggiando di paese in paese, senza possedere nient’altro che il proprio bagaglio. Prerna Gupta appartiene alla privilegiata élite globale che ha avuto accesso alle migliori università del mondo e può permettersi di lavorare ovunque ci sia una connessione internet. Se le élite del passato ostentavano il proprio status superiore attraverso il consumo vistoso, le nuove élite hanno trasformato il consumo vistoso in “esperienza vistosa” (partecipare all’esperienza del potlach del Burning Man è considerata una manifestazione di status tra le élite tecnologiche californiane).
Prerna Gupta prosegue nel suo articolo con una lista di motivi per cui “condividere” è meglio che “avere”:
- “1) la proprietà è un casino. Non posso nemmeno immaginare di avere una casa e dover avere a che fare con tutta la merda derivante dalla gestione di una cosa così grande e costosa;
- 2) tutti sanno che la nostra generazione, la generazione Y, è poco interessata a impegnarsi seriamente. Trovo che l’idea di sbattersi per vivere in un solo posto sia deprimente;
- 3) “freelancers” are King. Essere freelance sta diventando uno stile di vita;
- 4) l’ampiezza dei nuclei familiari sta diminuendo e con esso il bisogno di sistemarsi in un posto fisso;
- 5) democratizzazione dello stile: in pratica ci piacciono sempre più le stesse cose nello stesso momento. Però i nostri gusti cambiano velocemente, secondo le ultime mode hipster, e quindi è meglio prendere in prestito le cose che trovarsi in mano cose che non ci piacciono più”.
Apparentemente sembrano degli hippies seguaci dei coniugi Maureen e Tony Wheeler (i fondatori della Lonely Planet), in realtà non sono altro che l’evoluzione techno-hipster dell’idealtipo nomade degli anni settanta: entrambi “rinnegano” la proprietà in nome dell’esperienza, ma gli ultimi non rinnegano certo la carta di credito necessaria all’accesso alle esperienze e ai servizi per alimentare il proprio nomadismo.
Mi fermo un attimo: mi guardo allo specchio e ho paura di assomigliare a Prerna Gupta (orrore!). Ho ancora una macchina, ma la uso sempre meno. Non ho più una bici (rubata nel cortile di casa) e affitto quella del sindaco. Da quando ho lasciato casa dei miei per andare a studiare ho cambiato 4 città e 18 appartamenti, sempre in affitto. E tutto questo probabilmente è accaduto perché le condizioni materiali del mio lavoro corrispondono a quelle del lavoratore precario/free lance della conoscenza, a seconda che abbia più o meno controllo sul prodotto e più o meno potere contrattuale. Sono le condizioni materiali della produzione che determinano l’appartenenza ad una particolare classe sociale, direbbe qualcuno con una barba molto lunga.
È proprio questa condizione materiale del vivere contemporaneo che ha permesso la diffusione esponenziale delle pratiche di consumo collaborativo e l’affermarsi di stili di vita non orientati alla proprietà. La cosiddetta Sharing Economy si è inserita come un software auto-installante su di un sistema operativo sociale dove la precarietà è ormai la condizione comune delle nuove generazioni. I free lance e i precari di tutto il mondo hanno visto negli strumenti della Sharing Economy il miraggio di un ammortizzatore sociale che gli stati nazionali liberali occidentali non vogliono più garantire. Già nel 2012, Forbes pubblicava un report della stessa Airbnb, in cui sosteneva che il 20% di chi affittava una casa a San Francisco era un free lance, il 12% era a part-time e il 7% era disoccupato. Il 42% degli affittuari di Airbnb di San Francisco usava le entrate derivanti dal servizio per integrare il bilancio quotidiano e il 56% le usava per pagarsi l’affitto o il mutuo (contribuendo all’impennata ulteriore dei prezzi degli affitti in città).
Dove il welfare state è solo per i lavoratori garantiti e a posto fisso entrati nel mercato del lavoro nel XX secolo, gli esclusi dalle forme di sicurezza sociale hanno iniziato ad arrangiarsi sfruttando economicamente gli appigli offerti dalla Sharing Economy. Come la nascente classe operaia del mondo industriale ottocentesco ha creato le sue forme di mutuo soccorso (poi incorporate dallo stato sotto forma di welfare state), oggi i freelance e precari della nuova economia digitale si auto organizzano in nuove forme di cooperazione per affrontare la durezza della vita da imprenditore di se stesso, come ha messo ben in evidenza Roberto Ciccarelli in
questo articolo per Lavoro Culturale. Ma nella Sharing Economy, i lavoratori, come dice un articolo del New York Times, “
trovano sia la libertà che l’incertezza: nella retorica promettente della sharing economy, i cui siti e app connettono persone in cerca di servizi con venditori che offrono quei servizi, Ms. Guidry è una micro-imprenditrice, cioè un lavoratore indipendente che guadagna mettendo a disposizione di consumatori in cerca di un passaggio, una stanza, un cuoco ecc… le sue competenze, il suo tempo o le sue proprietà. ‘Ma ogni giorno non sai cosa succederà il giorno dopo, se ti cambiano le tariffe, i guadagni, le modalità di pagamento’”.
Non è tutto Sharing quello che luccica
Fin qui la facciata positiva della Sharing Economy. Iniziamo ora la pars destruens. È innegabile che i servizi della “Sharing Economy” che molti di noi utilizzano sempre più spesso rappresentano, dal lato del consumatore, un’offerta di servizi più efficienti ed economici, ma qual è il costo sociale di questa offerta più razionale e a portata di mano?
Il miglioramento dei servizi al consumatore va di pari passo con il peggioramento delle condizioni dei lavoratori della Sharing Economy: il paradigma dell’efficienza, del rating collettivo dei servizi, della libertà di impresa personale tipico della Sharing Economy porta in realtà nella direzione di un’esasperazione della figura del self made man, dell’uomo neoliberale che è potenzialmente libero di intraprendere qualsiasi impresa personale ma anche terribilmente responsabile dei suoi fallimenti, senza alcuna rete di protezione per chi non ce la fa. La Sharing Economy di Uber e Airbnb è al momento un paradiso per viaggiatori e cercatori di passaggi e un inferno per chi è costretto ad affittare se stesso e tutto quello che ha senza alcun diritto né garanzia. È il sogno realizzato del neoliberismo, finalmente capace di esternalizzare tutti i rischi d’impresa sul corpo dell’individuo, senza alcun dovere di compensazione.
In un recente
articolo accademico dal titolo Understanding Fair Labor Practices in a Networked Age, gli autori Kneese, Rosenblat e Boyd, descrivono come gli autisti di Uber a Los Angeles sono costretti a dire agli utenti che adorano il proprio lavoro, per paura di ricevere un basso rating. Un autista ha detto: “Ci sediamo e sorridiamo, e diciamo a tutti che il lavoro è meraviglioso, perché questo è ciò che si vogliono sentir dire”, mentre sono estremamente insoddisfatti delle loro condizioni di lavoro. Un altro autista ha detto: “Uber ci sfrutta e ci tratta come un branco di perdenti che non potrebbero trovare altro da fare se non questo. Pensa che siamo dei robot, che possiamo essere sostituiti” (e infatti Uber sta proprio studiando la possibilità di sostituirli davvero, secondo questo articolo di The Verge del maggio scorso).
Il 22 ottobre è accaduto il
primo sciopero nella storia della Sharing Economy: in varie città americane e a Londra uno sparuto gruppo di autisti di Uber ha spento la app ed è sceso in strada per protestare contro le paghe da fame, innalzando slogan come “15 ore di lavoro in cambio di bassi stipendi”. Si lamentano gli autisti di Uber, si lamentano i tassisti tradizionali, così come si lamentano gli albergatori. Certo, è difficile simpatizzare per i tassisti e gli albergatori, ai quali associamo spesso il ricordo di pessimi servizi molto costosi, tipico di ogni mercato non competitivo, ma la deregulation totale nella quale agiscono Uber e Airbnb è folle e rischiosa.
L’errore più grande che stiamo facendo è quello di chiamare, con la parola Sharing Economy, tutta una serie di attività che solo apparentemente hanno la condivisione come tratto comune. La maggior parte di queste attività in realtà, sono delle “rental economies”, delle economie basate sull’affitto di beni e servizi attraverso delle piattaforme tecnologiche proprietarie e commerciali, come sostiene
Giorgos Kallis.
Airbnb, una società fondata nel 2008, è valutata più della catena globale di hotel Hyatt, offre tante camere quante quelle offerte dalla catena Intercontinental, che al contrario di Airbnb ha 120.000 impiegati in 100 paesi. A Intercontinental ci sono voluti 60 anni per costruire questo impero. E poi arriva Airbnb, che finora ha ospitato 8,5 milioni di persone senza costruire un mattone. Tutto quello che hanno costruito è una app. È una società di logistica, non è sharing economy.
I costi degli affitti nel centro di Barcellona stanno decollando, dal momento che i proprietari trovano più vantaggioso affittare per pochi giorni ad Airbnb piuttosto che a lungo termine e a costi più bassi. Il risultato, sostiene Kallis, è la trasformazione in merce di quelle poche briciole di vita sociale che erano rimaste fuori dall’economia. L’economia redditizia di Airbnb, prosegue Kallis, non è la stessa cosa della reale economia della condivisione rappresentata dai giardini urbani collettivi, banche del tempo, couchsurfing, dove gli utenti condividono realmente le loro risorse a fini di mutuo aiuto e soccorso, senza intermediazione monetaria e senza profitti. La “rental economy è l’inevitabile versione mercificata della sharing economy. Affittare”, conclude Kallis, “non è condividere: dovrebbe essere regolato e tassato”.
Trebor Scholz, ricercatore della New School di New York, autore del libro
“Digital Labor: the Internet as Playground and Factory” e della serie di incontri “Digital Labor”, sul suo blog ha scritto che “c’è una differenza tra le pratiche non orientate al mercato come Craiglist e Fairnopoly da un lato e imprese come Uber e Airbnb dall’altro, che generano profitti dalle interazioni peer-to-peer. Sono a favore della produzione peer-to-peer e delle pratiche di condivisione, ma sono preoccupato da questi tentativi di sussunzione (incorporazione) delle pratiche realmente p2p da parte della retorica corporate della ‘sharing revolution’. Non sono d’accordo quando pratiche e progetti come
Shareable (un magazine online che racconta l’emergere delle pratiche di consumo collaborativo e cooperativo) e Wikipedia – o più in generale stili di vita collaborativi di persone che si scambiano risorse, cibo, competenze, tempo – vengono assimilati e confusi con pratiche estrattive, che sfruttano i lavoratori per estrarre profitti da parte di aziende parassite”.
A questo punto non mi rimane che tornare alle idee di Michel Bauwens, che avevo intervistato (qui) poco tempo fa per Doppiozero: Bauwens, fondatore della P2P Foundation, è un teorico delle nuove economie collaborative ed è molto chiaro nel distinguere tra forme di sharing estrattive e sfruttatrici, quelle che lui chiama “netarchical capitalism” e forme cooperative: “lo scenario no profit e con controllo centralizzato (quello che chiamo local resilience scenario) è dove gruppi locali utilizzano piattaforme p2p per creare monete comunitarie, piattaforme di scambio di cibo locale ecc. Uno scenario in cui le tecnologie p2p sono al servizio di una comunità locale. Infine, nello scenario che preferiamo, quello dei beni comuni globali, ci sono grandi comunità globali che sviluppano progetti aperti come nel caso di Wikispeed, Linux e Wikipedia e dove la governance globale è più democratica, post-capitalista e post-statale”.
Bauwens non auspica una sostituzione dello scenario “for-profit” in cambio di uno “non-profit”, ma al contrario immagina un mondo dove stato, mercato ed economie collaborative coesistano.
Offuscati dall’efficienza dei nuovi servizi della Sharing Economy, stiamo perdendo di vista la differenza tra diverse economie collaborative: alcune lo sono per principio, perché generano profitti per la collettività (sia per chi consuma, che per chi lavora, come in un fair trade dell’economia digitale), altri invece non sono affatto “sharing”. E questa è la differenza che passa tra uno scenario anarco-capitalista, dove l’individuo è potenzialmente libero ma strutturalmente solo, e uno scenario cooperativo e sociale, dove l’individuo agisce dentro reti sociali di solidarietà, un po’ meno libero, ma più sicuro.
Forse, invece di correre dietro all’ennesima tecnologia “disruptive” in nome di un comprensibile amore per dei servizi migliori, dovremmo iniziare a porci la questione della sostenibilità di queste nuove economie basate su reti digitali. Un’economia anarco-capitalista, dove la produzione è automatizzata e tutti combattono uno contro l’altro per delle paghe da fame è uno scenario insostenibile. Forse allora conviene tornare a imbracciare Kropotkin, e il suo meraviglioso libro
“Mutual Aid”, per (re)imparare dal passato a sostenerci a vicenda, a condividere risorse quando le nostre non sono abbastanza per vivere e ad organizzarci per estendere questi diritti a tutti, indistintamente. Passare dalla politica degli ottanta euro alla classe media al reddito di base, per intenderci, o a un sostegno diretto alla creazione di imprese digitali no-profit efficienti e sostenibili.