La causa principale dell’attuale forte incremento della disoccupazione giovanile è senza dubbio la crisi economica che continua a colpire il nostro paese. Difatti, l’andamento della disoccupazione giovanile segue “a braccetto” quello della disoccupazione per gli adulti. (http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=2086&Itemid=1)

di Francesco Berlingieri

Diversi economisti hanno criticato l’eccessiva attenzione mediatica e politica sul fenomeno della disoccupazione giovanile e sulla ricerca di rimedi nel breve periodo per affrontarla (Si veda per esempio Barslund e Gros 2013). Nonostante la creazione di nuovi posti di lavoro sia senza dubbio la migliore medicina in tempo di crisi, è bene utilizzare l’attenzione rivolta al mercato del lavoro dei giovani per riflettere sui problemi strutturali che riguardano la transizione scuola-lavoro nel nostro paese.

Il grafico sotto fa vedere come il rapporto tra la disoccupazione giovanile e quella adulta sia da tempo molto più alto in Italia rispetto agli altri paesi europei. A questo si aggiunge una percentuale di giovani NEET (cioè coloro i quali non studiano e non lavorano) decisamente più alta della media europea. In Italia i giovani erano relativamente svantaggiati già prima della crisi economica, che ha ulteriormente peggiorato un difficile ingresso nel mercato del lavoro dei più giovani.
In un recente studio abbiamo cercato di individuare quelle che possono essere i fattori chiave dietro alle differenze tra i paesi europei rispetto al funzionamento del mercato del lavoro per i giovani e alla differente sensitività della disoccupazione giovanile al ciclo economico (Il nostro studio al Centre for European Economic Research (ZEW) è scaricabile a questo link: http://ftp.zew.de/pub/zew-docs/gutachten/RBS_ZEW-Studie_Jugendarbeitslosigkeit.pdf). Riferendoci alla letteratura economica e ad esperti delle istituzioni nei vari paesi, abbiamo delineato le riforme che riteniamo necessarie per affrontare il difficile inserimento dei giovani nella vita lavorativa. Data l’impossibilità di entrare nei dettagli, le nostre indicazioni di carattere generale possono risultare banali agli esperti del settore. Ci sembra però importante rimarcare che sotto diversi aspetti quali la formazione professionale e le politiche attive di sostegno ai disoccupati, stiamo perdendo terreno non soltanto rispetto ai paesi “modello” dell’Europa settentrionale e centrale, ma anche rispetto a paesi dell’Europa meridionale come Spagna e Portogallo. L’Italia ha un disperato bisogno di riformare il sistema educativo e le istituzioni del mercato del lavoro.

Come prima cosa è bene notare che investiamo poco in istruzione secondaria e terziaria. Secondo dati OCSE spendiamo il 10% in meno per studente della scuola secondaria rispetto alla media europea e l’investimento per studente non è aumentato dal 1995 contrariamente a quasi tutti i paesi dell’area OCSE (Education at a Glance 2013, OECD ). Gli scarsi risultati in termine di competenze dei giovani adulti (PIAAC) e ragazzi (PISA) dimostrano che è necessario un migliore e maggiore investimento in educazione a tutti i livelli. Dati non meno rassicuranti riguardano l’istruzione terziaria, con più della metà degli iscritti all’università che non completano il percorso di studi e un forte disallineamento delle competenze dei laureati con quelle richieste dal mercato del lavoro (Si veda per es. Caroleo e Pastore 2013).

In Italia si è discusso molto sulla possibilità di introdurre il sistema duale di formazione professionale, un modello che in Germania fa riferimento ad una solida tradizione e ad un sistema produttivo dinamico. Al di là della possibilità o meno di introdurre un sistema di questo genere nel lungo periodo, bisogna notare quanto poco si parlino tra loro il sistema educativo e il mondo professionale in Italia. A nostro avviso bisognerebbe iniziare ad aumentare il coordinamento e la comunicazione tra questi due mondi a tutti i livelli. Negli istituti professionali servirebbe un ammodernamento dei curricula e un programma con vere esperienze lavorative in azienda. Il vuoto esistente tra la scuola secondaria e un’università con molta teoria e poca pratica andrebbe colmato puntando su percorsi universitari più applicati e su un ampliamento di percorsi post-secondari avanzati come gli istituti tecnici superiori (ITS). Se il testo unico sull’apprendistato ha incontrato non pochi problemi (anche dovuti all’attuazione in un periodo di crisi economica), vi è evidenza che i contratti di apprendistato migliorino l’ingresso lavorativo dei giovani (Si veda per es. Picchio e Staffolani 2013). È quindi fondamentale continuare a rafforzare e uniformare il training esterno all’azienda con maggiori standard sulla qualità del training in azienda.

Per quello che riguarda il mercato del lavoro, il forte dualismo tra contratti a tempo determinato e indeterminato e la forte precarietà di molte forme di occupazione dei giovani hanno contribuito non poco alla forte sensitività della disoccupazione giovanile alla recessione. Diminuire le forme contrattuali con un progressivo aumento delle tutele dei lavoratori nel tempo è sicuramente un passo nella giusta direzione. Occorrerebbe anche una discussione più profonda rispetto a permettere i licenziamenti per motivi economici dietro un congruo indennizzo insieme ad una riforma degli ammortizzatori sociali con sussidi di disoccupazione validi per tutti.

Infine più coraggio sarebbe necessario nella riforma dei servizi per l’impiego. Se da una parte giudichiamo in modo negativo il programma europeo della Garanzia per i giovani – perché rischia di frammentare importanti risorse in piccoli programmi poco efficaci -, dall’altra rappresenta una buona chance per rafforzare i centri per l’impiego. Anche la scarsa mobilità tra regioni dei giovani contribuisce ad uno scarso match tra domanda e offerta di lavoro. Quando si cerca di dare una risposta al perché dei tanti giovani “mammoni” è utile dare un’occhiata alle statistiche della spesa sociale per categoria. In percentuale al PIL spendiamo molto più della media europea in pensioni, poco meno in sanità, ma decisamente meno in trasferimenti di cui beneficiano anche i più giovani come sostegno alla famiglia, ai disoccupati e sussidi per l’abitazione. Parafrasando il programma radiofonico, l’Italia non è un paese per giovani.

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