Nelle sale il nuovo film di Wim Wenders sulla biografia del fotografo Sebastiao Salgado. (
http://www.labsus.org/2014/11/riscoprire-il-sale-della-terra-per-tornare-cittadini/)
Francesco Gentili
Un brasiliano che lascia un Paese dilaniato dalla dittatura, abbandonando un fruttuoso avvenire da economista, puntando dritto alla scoperta del mondo. Bastano poche parole per raccontare la storia di Sebastiao Salgado, fotografo viaggiatore. L’intensità dei suoi giorni trova preparatissimo Win Wenders che offre un lungometraggio di prezioso valore.
Il genere umano che razzia, abbatte, distrugge, autoproclamandosi proprietario esclusivo di un bene non suo
Il giovane laureato Sebastiao Salgado, nato ad Aimorés nel sud-est del Brasile, dopo il colpo di stato del 1964, appena ventenne, emigra con la moglie in un’Europa che non riesce a convincerlo assicurandogli un prospero futuro da economista affermato. Sebastiao si coccola la macchina fotografica che la moglie Lelia gli ha regalato, con amore, anni prima. Comincia a scattare foto e a raccontare storie di uomini.
Genesis, Workers, Migrations and Portraits, Others Americas. I titoli dei lavori di Salgado sono la didascalia perfetta dell’immagine che fotografa la vita del grande artista. Anni trascorsi a raccontare le tragedie, le gioie, le sofferenze ed i sollievi di quanti ogni giorno contribuiscono alla vita di questo pianeta.
Rwanda, Ethiopia, Francia, Polinesia. Dagli operai brasiliani, agli indigeni del Kenya, l’umanità è stata immortalata per una vita da un indefesso Salgado che è riuscito nell’ardua impresa di comprendere il valore che ogni scatto porta con sé: egli trasmette l’immagine del fotografo e del fotografato; inquadrato e inquadrante, uniti nel tentativo di comunicare la vicinanza di contesti apparentemente lontani, uniti alle innumerevoli sfaccettature di un mondo immenso. I suoi viaggi sanno parlare di mondi diversi che calpestano la stessa Terra. Sanno parlare di tribù asiatiche e di opulenza americana. Di genocidi africani e di vecchie tartarughe oceaniche. Wenders e Salgado decidono di dimostrare l’esistenza di uno splendido pianeta di cui l’essere umano fa parte e che, nel bene e nel male, deve accettare come comune a tutti.
Croce e delizia dell’ecosistema, l’uomo va così a comporre quell’universo così appassionante e così catastrofico. La madre Terra fa da sfondo alle rappresentazioni del fotografo che sceglie come protagonisti delle sue foto i proprietari illegittimi del suolo che occupano. Il genere umano che razzia, abbatte, distrugge, autoproclamandosi proprietario esclusivo di un bene non suo; l’individuo che fugge l’idea di cogestione di un universo che egli tende invece a modificare a suo esclusivo piacimento.
La famiglia di Salgado, dopo aver girato il mondo, ha ripreso la volta del Brasile dove ha trovato la siccità a rosicchiare ogni cespuglio della fazenda di famiglia. Non farsi prendere da una facile paura è stato il motto della casa che ha consentito di rimboccarsi le maniche e provvedere a riconsegnare una piccola fetta di benessere alla Terra di cui siamo figli. In dieci anni Sebastiao Salgado e la sua famiglia hanno ripiantato oltre due milioni di alberi ed hanno così ridato vita ad una foresta. Una foresta della cui proprietà Sebastiao e la moglie hanno deciso di disfarsi, concependo la volontà di restituire quel bene alla collettività. Da qualche tempo quella foresta è tornata ad essere un parco naturale, è tornata pubblica, è tornata comune, di tutti.
Un sistema che permette ai suoi sudditi di impossessarsi di una foresta e lascia loro la libertà di abbatterla deve saper ripartire dalle storie come quella raccontata dal film. Gli scenari incontrati dall’obiettivo di Salgado hanno spinto la coscienza civica a tornare all’interno della mente di questo grande artista. Quella di Wenders è la storia di una coscienza che ritrova la strada di casa.
Ma è pensabile che per prendere coscienza dell’appartenenza ad un mondo comune, che per trovare la consapevolezza di condividere con miliardi di simili ciò che ci circonda occorra girare per quarant’anni i cinque continenti? Non basterebbe, più semplicemente, convincere i cittadini puntando a un cambiamento di paradigma culturale e istituzionale?