Lo spiega il nuovo rapporto Eea. I nostri sistemi di produzione e consumo europei devono essere ripensati radicalmente.
di Umberto Mazzantini
Alla vigilia del Consiglio europeo che si conclude oggi, e che
ha deciso sulle misure energetiche e climatiche che determineranno il futuro e l’azione dell’Ue entro il 2030, a Copenaghen si è tenuto un importante quanto ignorato Global Green Growth Forum che è stato anche l’occasione per presentare “l’Environmental indicator report 2014 - Environmental impacts of production-consumption systems in Europe” redatto dall’Agenzia europea dell’ambiente (European environment agency – Eea) che esamina lo stato della transizione verso la green economy, con un focus sugli impatti ambientali globali di sistemi di produzione-consumo dell’Ue.
Si tratta più o meno del dettagliato testamento che la non brillante Commissione Barroso e gli intraprendenti commissari all’Ambiente, e all’Azione climatica, rispettivamente lo sloveno Janez Potocnik, e all’azione climatica, la danese Connie Hedegaard, lasciano ai loro imbarazzanti successori: il maltese Karmenu Vella e lo spagnolo Miguel Arias Cañete. Un testamento tecnico-scientifico-economico che contiene dati e grafici apparentemente ignorati anche dalla politica nostrana e alieni rispetto alle ambizioni di crescita old-style, fossili e cementificatorie, del decreto “Sblocca Italia”.
Infatti l’Environmental indicator report 2014 ricorda che la politica ambientale dell’Unione europea è incorniciata nell’ambizioso e innovativo settimo Paa – Programma generale di azione dell’Unione in materia di ambiente (Vivere bene entro i limiti del nostro Pianeta – Live well within the limits of the planet), che punta ad un’economia circolare senza sprechi e nella quale la biodiversità sia valorizzata e ripristinata in modo da rafforzare la resilienza della società. Ma il nuovo rapporto ci ricorda che «circa la metà di alcune pressioni dettate dai consumi dell’Ue vengono esercitate al di fuori dei confini dell’Unione, compreso l’utilizzo del territorio, l’utilizzo di acqua ed alcune emissioni di inquinanti atmosferici, in parte perché i beni di consumo vengono sempre più prodotti all’estero».
I sistemi di produzione e di consumo nell’Unione europea hanno grandi impatti globali sull’ambiente. Stanno emergendo modi più sostenibili di soddisfare i nostri bisogni, ma secondo il rapporto Eea «hanno bisogno di più sostegno».
Il nuovo rapporto sottolinea che «l’impatto globalizzato dell’Europa può essere anche positivo, per esempio fornendo molti posti di lavoro e producendo una parte significativa del reddito nazionale nei Paesi esportatori, ma può avere alcuni effetti collaterali negativi: trends non sostenibili, tra i quali grandi quantità di rifiuti alimentari in tutta la catena della filiera, l’aumento dei consumi di vestiti a buon mercato e – nonostante molti apparecchi diventino più efficienti – l’aumento dei consumi di energia elettrica delle famiglie europee. Inoltre, poiché gli effetti ambientali e sociali di questi trends vengono spesso esercitati oltre i confini europei, per la politica europea è difficile influenzarli e rimangono in gran parte invisibili ai consumatori».
Poi c’è il problema dei problemi: l’Ue è fortemente dipendente dal resto del mondo per le materie prime. «Quando si confrontano le importazioni e le esportazioni, risulta chiaro come viene importato nell’Ue circa otto volte più materia prima (in peso) rispetto quanta ne viene esportata. L’estrazione e il trasporto di questi materiali mette sotto una notevole pressione l’ambiente globale».
Presentando il rapporto al Global Green Growth Forum di Copenaghen, il direttore esecutivo dell’Eaa, Hans Bruyninckx, ha detto: «Il modo in cui viviamo e come produciamo le cose ha un impatto sostanziale, anche al di là dei nostri confini. In passato l’Europa si è in gran parte concentrata sulle politiche per rendere la produzione europea più eco-efficiente, ma possiamo vedere che in un mondo globalizzato è sempre più importante ripensare radicalmente il modo in cui consumiamo e produciamo, per favorire una vera sostenibilità per tutto il ciclo di vita dei prodotti».
L’Ue fortunatamente, grazie anche a Potocnik e Hedegaard, non è certo in fondo alla classifica delle politiche ambientali e climatiche e ci sono alcune tendenze sociali positive che mostrano come i sistemi di produzione e di consumo possano potenzialmente diventare più sostenibili. «Ad esempio – spiegano all’Agenzia europea dell’ambiente – molte persone hanno iniziato a consumare in modi diversi, mentre le nuove tecnologie rendono più facile fare le cose collettivamente, dallo sharing car agli strumenti di lavoro per la gestione di orti sociali. In molti casi i consumatori stanno diventando produttori, il che può avere benefici ambientali. Questa tendenza verso il “prosumerismo” può significare una maggiore vendita di energia elettrica prodotta dai pannelli solari sui tetti o la produzione e la distribuzione cooperativa di cibo».
Tutte cose ritenute marginali e “fricchettone” da gran parte dei politici italiani ed europei ma che, almeno a leggere l’Environmental indicator report 2014 interessano già un bel pezzo di società europea (e italiana). In particolare nei Paesi più ricchi e progrediti e tra la fascia di popolazione più acculturata ed avveduta. Guardando i grafici che pubblichiamo a lato, tratti del rapporto, l’Italia – anche se gli effetti della crisi balzano agli occhi – è in una posizione di mezzo: non è messa benissimo come i Paesi scandinavi, ma nemmeno malissimo come il gruppo dell’Europa orientale.
Non si tratta di realizzare un nuovo “socialismo verde” all’europea, come teme qualche neo-conservatore installatosi ai piani alti dei palazzi del potere dell’Ue. Il rapporto sostiene che «anche il businesses può svolgere un ruolo importante», prendendo atto che «i rivenditori hanno il grande potere di influenzare i prodotti che la gente compra, facendo spostare i consumatori verso prodotti più sostenibili o rimuovendo le scelte più dannose per l’ambiente. Il rapporto conclude che «anche nuovi modelli di business, che utilizzano i rifiuti riciclandoli e rimettono a nuovo prodotti usati, possono aiutare a utilizzare in modo più efficiente le risorse in Europa. Tuttavia, per fiorire, queste iniziative hanno bisogno di un maggiore sostegno politico».
La nuova Commissioni Junker e diversi governi europei, che credono e sperano di uscire dalla crisi strutturale utilizzando i sistemi di produzione e consumo e le politiche economico-finanziarie che ci hanno portato a questa crisi di sistema, ambientale e delle risorse, rischiano dunque di fare un pessimo servizio all’economia e alla società europea.
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