Al workshop di iris, dal ruolo del design ai modelli ibridi. (http://www.eticanews.it/2014/09/tempo-di-restyling-dellimpresa-sociale/)

1944. Alla vigilia dello sbarco in Normandia un manipolo di galeotti viene addestrato dall’esercito americano per compiere una rischiosa missione: assaltare un castello francese dove è situato un quartier generale tedesco. Se riusciranno nell’impresa ai criminali verrà restituita la libertà. Il gruppo viene chiamato la “Sporca Dozzina”, appellativo che rappresenta anche il titolo del celebre film di Robert Aldrich. 2014. Al Workshop sull’Impresa Sociale di Iris Network una community di designer dalle svariate estrazioni formative, professionali e geografiche viene incaricata dall’anfitrione dell’evento Flaviano Zandonai, segretario di Iris, di sparigliare le carte sui tradizionali modi di pensare all’innovazione sociale, attraverso il design approach e la filosofia che lo ispira. Ripartendo dai bisogni dell’utente, portandolo al centro della progettazione o addirittura rendendolo partner di progetto. Un compito semplice solo sulla carta, che è valso ai volenterosi designer il ruolo e la qualifica di “sporca dozzina” del Workshop, quest’anno intitolato “Ridisegnare i servizi per aumentare l’impatto”.

È duplice quindi la funzione del design in questo contesto: da un lato si parla di “ridisegnare”, dunque analizzare ciò che si offre e come lo si offre per trasformare le criticità in punti di forza, e di “aumentare”, cioè fare in modo che al termine di questo processo gli outcome siano maggiori. Dall’altro il focus è sui “servizi” che generano un ”impatto”. Secondo Francesco Zurlo, docente del Politecnico di Milano e protagonista di una delle sessioni plenarie, i servizi sono delle narrazioni, un continuum esperienziale dotato di plurali touchpoint. E il designer, in quanto problem-setter e non problem-solver, identifica ciò che passa sottotraccia per restituire il senso del progetto. Che non può essere altro che il beneficiario del prodotto o del servizio, e cioè l’utente. Per questo la “sporca dozzina”, vale a dire Valeria Adani (Epoca), Michele d’Alena (Comune di Bologna), Guglielmo Apolloni (School Raising), Francesca Battistoni (Social Seed), Claudia Busetto (Impact Hub Sicilia), Tamami Komatsu (Social Seed), Marta Maineri (Collaboriamo), Vincenzo di Maria (commongroundpeople – Impact Hub Sicilia), Letizia Melchiorre (Social Lab), Francesco d’Onghia (Università di Modena e Reggio Emilia, Paco Design Collaborative*), Noemi Satta (ZUP – Zuppa Urban Project), Daniela Selloni (Politecnico di Milano), sotto il cappello di “servicedesign4socent” sostenuto da Unipol, ha dato vita nella due giorni di Riva del Garda a una serie di sessioni fondate sul “learning by doing” attraverso contaminazioni e apprendimento reciproco, fino a sperimentare uno speed coaching con ogni partecipante interessato.

Il sodalizio tra design e impresa sociale, se in altri Paesi è già realtà, da noi non è ancora così scontato. Gli oltre 500 partecipanti al Workshop, provenienti dalle esperienze più diverse (in larga parte cooperative e consorzi, ma anche amministrazioni pubbliche e piccole realtà private, associazioni, fondazioni, ong e onp) hanno apprezzato le suggestioni lanciate da Zurlo e gli altri, ma non sempre sono riusciti a ricomporre la distanza tra teoria e pratica quotidiana. Proprio per questo va riconosciuto ancora di più il merito di Iris per aver portato all’attenzione un tema per certi versi di avanguardia, cercando con i partecipanti un compromesso al rialzo anziché che al ribasso. Come sempre accade, comunque, è più facile costruire ex novo che cambiare pratiche consolidate per cultura organizzativa e sistemi affermati. E, dunque, l’opera di sensibilizzazione al design condotta dagli organizzatori ha senz’altro avuto (e avrà) un riflesso più importante su idee e progetti di recente nascita e sviluppo.


L’ORTO SUL TETTO

Progetti come quelli che hanno partecipato alla competizione indetta da Fondazione Italiana Accenture attraverso la piattaforma IdeaTre60. Un concorso rivolto a organizzazioni che stanno lavorando a nuove idee di impresa sociale attraverso spin off, percorsi di intrapreneurship, incubazione, startup di rete, cessione di rami d’azienda, fusioni, trasformazioni societarie. Al Workshop sono approdati i cinque finalisti della competizione che, a seguito di una votazione, è stata vinta da OrtiAlti, un progetto promosso da Emanuela Saporito e Elena Carmagnani che da Torino offrono servizi di progettazione di orti sui tetti degli edifici (condomini, scuole, uffici, centri commerciali) attraverso il coinvolgimento degli abitanti/utenti, oltre all’accompagnamento alla gestione, il coordinamento di iniziative didattiche e culturali e la creazione di micro-comunità. Un’iniziativa che risponde in pieno ai canoni di un approccio design-centrico.


IN ATTESA DELLA NUOVA 155

Da un approccio “sul campo”, del tipo design-centrico, appaiono invece molto lontani sia la (revisione della) legge 155/06 sulle imprese sociali sia l’infinito dibattito sulle metriche e sulla possibilità della misurazione dell’impatto sociale. Entrambi i temi, inevitabilmente toccati anche durante il Workshop, continuano a essere affrontati con un approccio top-down, spesso attraverso prese di posizione di rappresentanti di categoria strumentali e opportunistiche. A detta del sottosegretario al Lavoro Luigi Bobba, intervenuto al Workshop e relatore della proposta di legge, il processo dovrebbe chiudersi entro l’anno o al più tardi nei primi mesi del 2015. Restano però ancora inevasi tanti punti interrogativi, legati, per esempio, oltre al tema della misurazione dell’impatto, al reinvestimento e alla distribuzione degli utili o all’obbligo di coinvolgimento degli stakeholders nella gestione. Il design, che sposa un approccio neanche “bottom-up”, ma piuttosto “border-up” (identificando i conflitti e puntando a una governance dei processi condivisa e sostenibile) sarebbe utile. Ma questa sappiamo essere un’utopia. Piuttosto sarebbe il caso di prendere coscienza, come evidenziato dal presidente di Iris Carlo Borzaga, che il pendolo tra Stato e Mercato si è definitivamente fermato, e che non basterà procedere verso una semplicistica riorganizzazione legislativa. Il rischio, infatti, è che la nuova legge sull’impresa sociale si tramuti in un inutile accorpamento di imprese sociali (a oggi un fallimento) e cooperative (ancora floride) senza un deciso balzo in avanti che accompagni i progetti imprenditoriali nel mondo contemporaneo.


UN QUADRO DI SOCIAL IBRIDI

Il consueto rapporto sulle imprese sociali, a firma di Flaviano Zandonai (Iris Network) e Paolo Venturi (Aiccon), anticipato a Riva e di prossima diffusione, dipinge senza sorprese un quadro disastroso dell’attuale costellazione di imprese nate sotto la stella della 155. Piuttosto, appare particolarmente interessante la provocazione portata dagli autori di considerare potenziali imprese sociali un alveo di oltre 60mila imprese for profit operanti in settori riconducibili al sociale e in grado di generare impatto. In quest’ottica, ha dunque molto senso la piattaforma appena lanciata dagli stessi Venturi e Zandonai, e chiamata “Tempi Ibridi”, che si propone di sviluppare una riflessione sul cambiamento sistemico in atto, una fase in cui le forme organizzative e i loro legami si ricombinano secondo modalità inedite e, inevitabilmente, molto fluide. Anche questa, come quella della “sporca dozzina” di Aldrich e dei designer del Workshop, appare un’operazione non semplice, ma rappresenta senz’altro un buon punto di partenza per facilitare lo sbarco nella contemporaneità, di tanti ancora culturalmente avvinghiati in modelli obsoleti.

Felice Meoli

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