È una vera sollevazione quella di associazioni, Ong e gruppi non violenti contro la decisione di inviare materiale bellico ai curdi. Da Rete Disarmo alle Acli, da Pax Christi a Emergency, da Libera a Un ponte per. Tutti a chiedere alla ministra Pinotti di evitare un drammatico errore. «È la prima volta da 30 anni che l’Italia fa una cosa del genere». (http://www.famigliacristiana.it/articolo/non-mandate-quelle-armi.aspx)

Stefano Pasta

Mentre il Governo sta pianificando come trasferire armi ai curdi, c’è un fronte di associazioni contrarie alla decisione votata dalle Commissioni esteri di Camera e Senato.

Sono quelle della Rete Disarmo, che riunisce realtà importanti dell’associazionismo italiano: Acli, Amnesty International, Arci, Attac, Beati i costruttori di Pace, Conferenza degli Istituti Missionari in Italia, Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Gruppo Abele, Libera, Mani Tese, Opal, Pax Christi, PeaceLink, Rete di Lilliput, Un ponte per…, Comunità Papa Giovanni XXIII e altri.

Scrivono in un duro comunicato: «Per la prima volta in trent’anni l’Italia decide di inviare armi ad un Paese in conflitto e lo giustifica sulla base della richiesta del governo locale e del via libera da parte dell’Ue. Come spiegato dalla ministra Pinotti, si tratta soprattutto di armi in disuso o sequestrate a trafficanti che avrebbero dovuto essere distrutte. Si immettono così sulla piazza armi facili da smerciare, che possono alimentare il mercato illegale: e questo in una regione dove già la gran parte degli armamenti proviene da traffici illeciti».

E quindi, che fare? Secondo Rete Disarmo, la “responsabilità nella protezione” (responsibility while protecting) non ricade solamente sul governo iracheno, ma sull’intera comunità internazionale. Finora, le forze armate curde e irachene hanno dimostrato di non essere in grado di proteggere da sole i civili in fuga e, sottolinea la Rete, «non solo perché non sono fornite degli armamenti necessari».

Pensando alle mire autonomiste dei curdi e alle tensioni tra sciiti e sunniti iracheni, il portavoce Francesco Vignarca spiega: «Delegare l’intervento militare a milizie composte da gruppi che, per quanto integrati in eserciti regolari, perseguono anche proprie finalità politiche, può essere rischioso e controproducente». A suo avviso, l’Ue, anziché investire altri delle responsabilità, dovrebbe organizzare «unità di pronto intervento e di interposizione razionalizzando l’impiego delle proprie forze armate nazionali».

Tutto l’associazionismo contrario all’invio delle armi ai curdi si ritrova nella “controproposta” di una forza di interposizione sotto l’egida dell’Onu, con funzioni di “peace enforcement”. Lo spiega don Renato Sacco, coordinatore di Pax Christi: «Papa Francesco, sull’aereo di ritorno a Roma dalla Corea, è stato molto chiaro. Ha detto che quando c’è un’aggressione ingiusta è lecito fermare l’aggressore, non bombardare o fare la guerra, ma fermarlo. Ha inoltre ricordato che “una sola nazione non può giudicare come si ferma l’aggressione, questo compito è delle Nazioni Unite. Dobbiamo avere memoria di quante volte con questa scusa di fermare un’aggressione ingiusta le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto vere guerre di conquista”. Noi dobbiamo evitare l’escalation del conflitto e creare le condizioni perché si possa giungere a una convivenza pacifica, anche per le minoranze, in quella regione».


L'unica via è un intervento sotto l'egida dell'Onu

Anche il presidente delle Acli Gianni Bottalico richiama l’invito di Papa Francesco a non ripetere gli errori del passato. «L’Isis», dice, «non si ferma fornendo armi ai curdi: lo può fare solo la comunità internazionale, attraverso l’Onu, facendo luce e mettendo di fronte alle loro responsabilità quanti hanno finanziato e armato questa orda di violenti, che ha tratto enorme giovamento dalla destabilizzazione della Libia e da quella in corso della Siria, e che si è radicata nell’Iraq disastrato in seguito alla lunga guerra di occupazione americana».

Le Acli, oltre a denunciare «l’incapacità dell’Europa di collocarsi autorevolmente e autonomamente sulla scena internazionale», criticano la scelta di votare l’invio di armi nelle sole Commissioni esteri, senza convocare l’intero Parlamento.

Tra le voci contrarie, ne arriva una direttamente dal Kurdistan, quella dell’Ong Un ponte per…, anche in queste ore accanto agli 800 mila sfollati interni iracheni e ai 200 mila profughi curdi scappati dalla Siria. I sei operatori italiani sul campo, che stanno collaborando con associazioni e attivisti locali, dicono: «Ben altro chiedono in questo momento coloro che in Iraq sono più attenti alla salvaguardia dei diritti umani: beni alimentari, acqua, interventi internazionali focalizzati alla protezione di popolazioni a rischio di genocidio, e ponti aerei per portare in zone sicure le minoranze ancora assediate nelle montagne di Sinjar e in altre zone del governatorato di Mosul».

Secondo l’associazione, «certamente un ponte aereo di C-130 dell’Esercito Italiano non era necessario per portare a Erbil acqua e biscotti facilmente acquistabili in loco, che appaiono quindi strumentali a giustificare la successiva distribuzione dei kalashnikov». È presente sul campo anche una delle voci storiche del pacifismo italiano, Emergency, che gestisce un centro chirurgico a Sulaimaniya e presta soccorso ai profughi siriani in Kurdistan. «L’Italia sbaglia», dice la presidente Cecilia Strada, «la strategia “armiamo il meno peggio”, o l’avversario del nemico di turno, ha creato i talebani».

Bisogna riflettere su come mai in Iraq «diciamo sempre che dobbiamo ricominciare da zero». Qui «la guerra c’era anche la settimana scorsa, e anche quella prima. Da quando la missione militare è stata dichiarata conclusa, da quando abbiamo “esportato la democrazia”, ci sono state centinaia di morti ogni mese». A suo avviso, «in Iraq ci sono troppe armi, non troppo poche. Chiediamoci anzi da dove sono arrivate quelle dei tagliatori di teste, forse risaliremmo proprio ai governi amici».

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