Stiamo pagando il costo sociale della globalizzazione, perché però ci ostiniamo a non intascare il dividendo monetario? Il problema di fondo, come ama ripetere spesso Joseph Stiglitz, è che le nostre istituzioni sono spesso governate da funzionari o da politici che hanno formato le loro idee 30-40 anni fa e che quindi rimasticano teorie e analisi dei fatti non sempre aggiornate. (http://felicita-sostenibile.blogautore.repubblica.it/2013/11/20/il-dividendo-monetario-e-di-signoraggio-della-globalizzazione-perche-ci-ostiniamo-a-non-intascarlo/)

di Leonardo Becchetti

E sulla politica monetaria, almeno in Europa dove il complesso di Weimar la fa ancora da padrone, siamo rimasti fermi al monetarismo del passato. Quando la moneta creata e moltiplicata per la velocità di circolazione che raggiungeva volumi in eccesso dei beni e servizi prodotti dall’economia produceva soltanto inflazione.

Perché oggi accade sorprendentemente il contrario e siamo invece di fronte ad evidenze impressionanti di masse monetarie che esplodono in Giappone e Stati Uniti e inflazioni assolutamente stabili e sotto controllo? O al contrario masse monetarie mantenute su dinamiche molto più contenute e tassi d’inflazione addirittura declinanti che tendono pericolosamente verso la soglia della deflazione?

E’ presto detto. La globalizzazione ha un costo sociale ma anche un dividendo monetario che Stati Uniti e Giappone hanno imparato ad intascare.

Globalizzazione in economia vuol dire istantanea trasmissione da un posto all’altro del globo delle merci senza peso (moneta,suoni, immagini, dati) ed estensione dei mercati (finanziario, del lavoro e del prodotto) da locali a globali. Il costo sociale sta pertanto nella concorrenza, a parità di qualifiche, tra lavoratori altamente sindacalizzati e ben pagati dei paesi ad alto reddito con lavoratori molto meno ben pagati. E in particolare con l’esercito di riserva di 1,2 miliardi di persone che vivono sotto la soglia di povertà di 1,25 dollari al giorno e dei 2,7 miliardi che vivono sotto quella dei 2 dollari al giorno. Questa pressione produce una drammatica serie di delocalizzazioni, la crisi della produzione nei nostri territori se la qualità del sistema paese non è in grado di controbilanciare questa nuova forza di gravità e comunque uno spostamento distributivo enorme con una riduzione della quota di PIL appropriata dal lavoro del 10 percento che diventa appannaggio del capitale. Ma la globalizzazione ha anche un dividendo monetario in grado di controbilanciare il costo sociale.

In questo contesto profondamente nuovo stampare moneta non ha più gli effetti inflattivi di prima. In primo luogo perché chi produce nei nostri paesi ed è in concorrenza con cinesi ed indiani non può permettersi di alzare i prezzi quando i cittadini arrivano con i soldi al mercato. In secondo luogo perchè serve a compensare la distruzione di base monetaria che si produce nelle crisi bancarie (in questo niente di nuovo dalle politiche che risolsero la crisi del ’29) oltre che a mettere soldi direttamente nelle tasche dei cittadini con acquisti di titoli sul mercato aperto da parte dei governi (come gli Stati Uniti stanno facendo con il quantitative easing immettendo 85 miliardi di dollari al mese e riuscendo a ridurre significativamente il tasso di disoccupazione). Ma c’è di più. Il dividendo monetario della globalizzazione può essere massimizzato trasferendo allo stato e ai cittadini l’intera rendita da signoraggio, ovvero quel guadagno sicuro che le banche centrali realizzano stampando moneta (ovvero passività irredimibili per loro a costo zero se escludiamo quelli minimi di fabbricazione) e vendendola a tassi positivi ai cittadini e alle banche. La Ue e il nostro paese non stanno riscuotendo il dividendo per vari motivi.

Bloccata dai vincoli dei trattati e dalle ossessioni tedesche la BCE non mette direttamente soldi nelle tasche dei cittadini con le manovre di mercato aperto ma si limita a ridurre i tassi cosa che, come sappiamo, è assolutamente inefficace per il famoso detto che si può portare il cavallo alla fonte ma non costringerlo a bere. Draghi, che vorrebbe seguire l’esempio americano, può soltanto imitarlo offrendo denaro non direttamente ai cittadini ma alle banche con le operazioni di rifinanziamento a lungo termine (LTRO) ma finisce per pompare acqua in un acquedotto pieno di perdite perché le banche massimizzatrici di profitto trovano molto più redditizio sfruttare la maggiore liquidità disponibile per fare tesoreria o attività speculativa più rischiosa piuttosto che prestare denaro a cittadini e imprese. Ma c’è un secondo lato del problema sul quale si potrebbe agire subito anche a livello nazionale che è quello del signoraggio dove assistiamo all’anomalia di Banca d’Italia un istituto di diritto pubblico che sfrutta in regime di monopolio un bene pubblico come il diritto di stampare moneta ed è controllato da istituti privati. Si dirà che le regole di gestione di Banca d’Italia sono stringenti ed eliminano possibili conflitti d’interesse ma non è così.

Il Consiglio Superiore controllato dalle banche private azioniste decide ogni anno quanto degli utili da signoraggio (tra i 7 e gli 8 miliardi) trasferire sui bilanci dello stato e quanto accantonare a riserva (aumentando il valore delle quote azionarie delle banche proprietarie). E, come fa notare Giovanni Siciliano in un pezzo su LaVoce.info, la bilancia verso la seconda scelta e ha portato nel corso degli anni ad un accumulo di riserve anomalo che ha portato oggi Bankitalia a trovarsi con più di 131 miliardi di euro di riserve per aver distribuito negli anni una quota di utili allo stato molto inferiore rispetto a quella di Banque de France o della Bundesbank. A che servono le riserve ad un deus ex machina come la BCE (cui in ultima analisi Bankitalia fa riferimento) che ha il supremo potere di creazione di base monetaria, ovvero un’attività priva di rischio ad utile garantito con la quale può colmare tutti gli eventuali buchi di bilancio derivanti dall’aumento del suo attivismo e dalla presenza di titoli tossici in bilancio ? ll rischio sarebbe appunto quello di non poter creare tutta la moneta che si vuole per non generare inflazione ma è appunto questo rischio che si è enormemente attenuato grazie al dividendo monetario della globalizzazione è che è ancora meno presente in eventuali fasi di crisi finanziaria in cui la moneta viene distrutta dalla crisi stessa e dai fallimenti delle banche.

Per il nostro paese poi intascare il dividendo monetario della globalizzazione vorrebbe dire ridurre il debito pubblico di più dell’8 percento del PIL (previo modesto rimborso delle quote agli azionisti), mentre la destinazione degli utili annuali in toto allo stato potrebbe ridurre di qualche importante decimale il rapporto deficit/PIL. Molto meglio che voler fare un altro regalo alle grandi banche riconoscendogli l’aumento del valore delle loro quote da sottoporre poi a tassazione. Usi alternativi del dividendo possono essere quelli di usare le riserve per costituire un fondo di garanzia che avvii finalmente l’emissione di eurobond per investimenti pubblici in Europa come propone da tempo Quadrio Curzio.

La globalizzazione presenta un costo sociale ma anche il nuovo vino del dividendo monetario, ancora più inebriante se combinato con la rendita da signoraggio (che cresce se la moneta stampata aumenta). E’ un vino da consumare con prudenza se non altro perché ci addentriamo in un terreno nuovo ma perché condannarsi ad essere astemi?

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