La storia dell’allunaggio vissuta in diretta, dai giornali in edicola 45 anni fa. Per raggiungere quella «magnifica desolazione» fummo capaci di sforzi che hanno molto da insegnarci per le sfide di oggi, dalla green economy allo studio del cervello.
di Luca Aterini
Difficile pensare a una notizia più emozionante da scrivere che non sia lo sbarco sulla Luna. Esattamente quarantacinque anni fa, il 21 luglio 1969,
i giornali che affollavano le edicole titolavano paginate come quella di fianco, da Il Mattino: «Sono sulla Luna. Un’Èra nuova nella storia dell’umanità». Alle 22:56 della sera precedente, il 20 luglio, Neil Alden Armstrong stava posando per la prima volta un piede umano in un altro mondo di questo nostro immenso universo. Buzz Aldrin, seguendolo – il terzo astronauta Michael Collins, romano di nascita, rimase a supporto di entrambi in orbita lunare – descrisse il nostro satellite come una «magnifica desolazione». La Luna finiva così di essere una delle più commoventi immagini sulle quali l’occhio umano potesse posarsi (da lontano) per divenire territorio di conquista scientifica.
Tornando sulla Terra, Aldrin, Armstrong e Collins non portarono con loro soltanto qualche tonnellata di rocce da analizzare, ma anche un sogno divenuto realtà. E tante, determinanti applicazioni tecnologiche per l’umanità che vive ogni giorno coi piedi ben piantati sul pianeta. La Nasa, fondata nel 1958, in una manciata d’anni percorse in folle corsa la strada lunga 380mila chilometri che separa l’uomo dalla Luna. Tutta la macchina statunitense, Stato federale in testa, si tese verso l’obiettivo fino ad afferrarlo. Letteralmente.
I numeri messi insieme da Il Secolo d’Italia – il giornale del Movimento Sociale d’Italia: la conquista della Luna è stata un’impresa trasversale – il 20 luglio del 1969, sono volutamente a effetto: «Si calcolano a oltre ventimila le imprese costruttrici mobilitate dagli esecutori del Progetto Apollo, e a oltre trecentomila i tecnici utilizzati (incidentalmente, con un impatto occupazionale niente male, ndr). Un programma colossale, che ha implicato una organizzazione di dimensioni gigantesche. E ciò per tacere della spesa affrontata, che si calcola intorno ai 24 miliardi di dollari, equivalenti a circa quindicimila miliardi di lire, cioè una somma che supera di circa quattromila miliardi la spesa totale dello Stato italiano in un anno».
Ma va a una delle penne più raffinate nel giornalismo italiano, Indro Montanelli, il merito di aver sottolineato sul Corriere della Sera l’aspetto ancor più titanico del Progetto Apollo. Dopotutto, 24 miliardi di dollari rappresentavano solo «lo 0,50 per cento del reddito nazionale americano». Piuttosto, dev’essere stato molto più complesso lo sforzo del coordinamento di un’impresa tanto grande.
«L’economia americana – scriveva Montanelli – non e un’economia di Stato, che lo Stato possa orientare a sua volontà, concentrandone le capacita inventive e produttive nel campo che più gli convenga. Deve fare i conti coi privati, e deve farli senza polizia e campi di concentramento. Ecco perché, all’inizio della sfida spaziale fra America e Russia, tutti o quasi tutti puntavano piuttosto sulla Russia, che oltre a godere di un notevole margine di anticipo, poteva impegnarvi tutto il suo potenziale tecnologico e industriale». Perché dunque ha prevalso l’America?
I trecentomila tecnici di cui sopra non erano «dipendenti statali», le ventimila imprese non «erano di Stato». Tra pubblico e privato c’era però, evidentemente, un «dialogo aperto». «Lo Stato non si è limitato a delle “commesse”. Ha convocato i singoli imprenditori, i loro stati maggiori tecnici, i dirigenti dei grandi istituti di studi e di ricerca, e ha discusso con loro l’opportunità di una vasta mobilitazione di mezzi e di energie per la conquista dello spazio. Ci sono stati dissensi e opposizioni. Ce ne sono ancora. Non tutti gli americani sono persuasi di ciò che l’America fa in cielo: qualcuno dice che farebbe meglio a occuparsi un po’ più della Terra […] Ma alla fine ha prevalso la tesi politica: che la conquista della Luna costituisce non soltanto un primato cui il Paese non può rinunciare, ma anche il pretesto e l’occasione di un balzo avanti tecnologico, di cui tutta la produzione, e quindi tutta la società risentiranno i benefici effetti».
A quasi mezzo secolo di distanza, possiamo dire che questa è la tesi che si è rivelata giusta. Ma possiamo dire di averne tratto la giusta lezione, oltre che i benefici? Il XXI secolo, dopo aver conquistato la Luna, ci chiede di salvare la Terra e di capirci meglio come uomini. Il secondo obiettivo, riassunto in Usa e Europa da due grandi progetti di ricerca sul cervello, già vacilla; sul primo, invece, nonostante la sua urgenza siamo ancora lontani da un disegno globale e organico.
Rimane «il vero problema di fondo – come scriveva Il Giorno nel 1969 quello posto da John Kennedy (l’uomo che, da presidente Usa, lanciò il Programma Apollo, ndr): “Se possiamo mandare uomini sulla Luna, perché non possiamo finirla con l’aria e con l’acqua inquinata, con la povertà, con le città stravecchie?”». Secondo l’Onu basterebbe investire appena «il 2% del Pil mondiale per mettere in opera la transizione verso la green economy», ma se la conquista della Luna ci ha insegnato qualcosa, è che non è (solo) questione di soldi.
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