Mentre la disoccupazione in Italia rasenta il 13% (12,7%), quella giovanile supera il 40% (41,6%), collocando il nostro paese tra i fanali di coda in Europa con riferimento alla presenza dei giovani nel mercato del lavoro: il lavoro dei giovani è una vera e propria emergenza finalmente al centro delle notizie di stampa e dei programmi della politica. (http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=2033&Itemid=1)

di Luisa Corazza

Per chiarire la gravità della situazione attuale, è necessario operare un’inversione logica e partire, invece che dalle cause della disoccupazione giovanile, dai suoi effetti, per poi tornare a discutere delle cause e valutare, infine, se le misure oggi in campo risultino adeguate.

La situazione della disoccupazione giovanile richiede interventi urgenti per almeno due ordini di ragioni: la prima attiene alla trasformazione dei giovani senza lavoro in veri e propri NEET, ovvero in soggetti che sono esclusi sia dal percorso educativo che dal mercato del lavoro attivo. Ciò genera una situazione di esclusione sociale, che si aggrava in alcune aree del paese (i costi economici e sociali dei NEET sono stati stimati, per la sola regione Campania, in circa 4 miliardi di euro, V. D’urzo, Pastore, L’esclusione in “crisi” nel mezzogiorno, in www.nelmerito.com, 19 maggio 2014).

La seconda ragione per la quale occorre arginare con urgenza la disoccupazione giovanile ha a che fare con la competitività delle imprese italiane. Com’è noto, tra i fattori che determinano la competitività di un sistema, un ruolo di primo piano è determinato dal tasso di innovazione delle imprese. Le imprese meno propense ad innovare perdono in competitività.

L’innovazione è un concetto complesso, alla creazione del quale contribuiscono vari fattori tra i quali gioca un ruolo essenziale capitale umano. Il rallentamento del ricambio generazionale si ripercuote sull’intero sistema imprenditoriale, rallentando le iniezioni di innovazione e frenandone la competitività. La questione della disoccupazione giovanile è dunque un’emergenza che investe non solo la condizione dei giovani, ma l’intero nostro sistema produttivo, perché produce gravi conseguenze non solo sotto il profilo dei costi sociali, ma anche sotto il profilo dei costi che derivano dalla perdita di competitività.

Rintracciare le cause di questo fenomeno di scollamento di un’intera generazione dal tessuto attivo della società italiana è operazione non semplice, poiché il fenomeno ha origine in politiche di diversa natura, portate avanti da diverse parti politiche, in un arco temporale che potrebbe essere collocato nell’ultimo ventennio.

Alcuni fattori determinanti di questo processo possono essere rintracciati nella legislazione sul mercato del lavoro. Esaminando le riforme del mercato del lavoro portate avanti negli ultimi venti anni, si ha la netta sensazione che del processo di flessibilizzazione richiesto dalla rivoluzione tecnologica si sia fatta carico soprattutto una generazione, quella, cioè, di chi si è affacciato per la prima volta sul mercato del lavoro dagli novanta in poi (si rinvia per questa evoluzione a Corazza, Generazione flessibile o tradita?, www.nelmerito.com, 23 dicembre 2010).

Questo processo di flessibilizzazione ha preso corpo in Italia a partire dalla metà degli anni ’80, quando la c.d. forza lavoro contingente è divenuta una delle componenti stabili della manodopera impiegata nelle imprese industriali, nei servizi, ma anche nelle pubbliche amministrazioni. L’esigenza di flessibilità in uscita è stata soddisfatta con la diffusione di forme di lavoro non standard, non solo subordinate, ma anche, e soprattutto autonome, di cui sono stati protagonisti pressochè soltanto i “giovani” non ancora entrati nella cittadella degli insiders. Le legislazione del decennio 2000/2010 ha poi sancito questa linea di politica del diritto emersa nei fatti prima che con le leggi, disciplinando con il d. lgs. n. 368/2001, prima, e con il d. lgs. n. 276/2003, un accesso alle forme di lavoro flessibile più “al passo con i tempi”.

La riforma Fornero (l. n. 92/2012) ha tentato di riequilibrare il rapporto tra flessibilità in entrata e flessibilità in uscita facilitando la seconda e rendendo più difficile la prima. Tuttavia, nonostante le prime valutazioni sugli effetti della stessa indichino una certa contrazione delle forme flessibili di lavoro (V. ISFOL, Gli effetti della legge n. 92/2012 sulla dinamica degli avviamenti dei contratti di lavoro. RAPPORTO N. 3), dalla Riforma Fornero non sono scaturiti effetti positivi per il problema della disoccupazione giovanile, che risulta anzi da questa aggravato. E ciò perché la combinazione della riforma del mercato del lavoro con quella pensionistica, che ha innalzato l’età pensionabile, ha avuto esiti nefasti sul ricambio generazionale all’interno delle imprese.

E’ vero che tutti i paesi europei stanno facendo i conti con la spinta verso una maggiore flessibilizzazione della prestazione lavorativa. In Italia è tuttavia mancato quel supporto alla flessibilità che in altri ordinamenti è fornito dall’apparato di welfare, non solo sotto forma di prestazioni previdenziali (qual è l’aspettativa pensionistica dei “giovani” che lavorano con contratti discontinui, il più delle volte di lavoro autonomo? Oppure, per restare nell’ambito di eventi che toccano più direttamente la vita di un giovane, come si declinano i congedi parentali e l’indennità di malattia nell’ambito delle c.d. “tipologie flessibili” di lavoro? E nel lavoro autonomo coordinato?), ma anche, e soprattutto, sotto forma di prestazioni sociali.

Mi riferisco, in primo luogo, alle c.d. politiche attive del lavoro, ovvero a quel circuito virtuoso che dovrebbe migliorare l’occupabilità del lavoratore invitato – spesso suo malgrado – ad entrare e uscire di continuo dalla schiera degli occupati; e, in secondo luogo, ai servizi sociali in senso stretto, come i servizi di sostegno alla famiglia.

A ciò si deve aggiungere un fattore che appare di contorno, ma assume invece un peso determinante in prospettiva strategia. Nell’era del lavoro flessibile, il patrimonio dei “giovani” è racchiuso nelle loro conoscenze: solo l’investimento in istruzione (soprattutto quella superiore) crea lavoratori meno vulnerabili alle crisi economiche. Ciò nonostante, l’Italia ha per molti anni incluso la pubblica istruzione – Università e istruzione superiore compresa – nel massiccio piano di tagli alle pubbliche risorse.

Il campanello di allarme della c.d. Jobless generation si è ormai acceso presso le istituzioni internazionali e nazionali, anche grazie all’attenzione che la questione giovanile ha ricevuto da parte dei media (v. l’inchiesta Generation Jobless, The Economist, 27th april, 2013). Si intravvede pertanto una piccola inversione di rotta.

1) L’Unione europea con il programma di investimento sulla Garanzia Giovani ha invertito la strada di contrazione degli investimenti pubblici, per scommettere sulla lotta alla disoccupazione giovanile.

Il quadro delineato dalla Raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea del 22 aprile 2013 sull’istituzione di una “Garanzia per i Giovani” invita gli Stati a garantire ai giovani un’offerta qualitativamente valida di lavoro, di proseguimento degli studi, di apprendistato o di tirocinio o altra misura di formazione entro quattro mesi dall’inizio della disoccupazione o dall’uscita dal sistema di istruzione formale. La Raccomandazione del 22 aprile 2013 stabilisce un principio di sostegno ai giovani fondato su politiche attive di istruzione, formazione e inserimento nel mondo del lavoro, indicando la prevenzione dell’esclusione e della marginalizzazione sociale come chiave strategica che deve ispirare l’azione degli Stati. Per perseguire questi obiettivi, la Garanzia giovani innova profondamente il bilancio europeo, introducendo un finanziamento importante, con valenza anche anticiclica, nelle Regioni dove la disoccupazione giovanile risulta superiore al 25%. Sul piano metodologico, poi, il piano Garanzia giovani indica con chiarezza che l’obiettivo deve essere quello di realizzare risultati significativi, misurabili, comparabili e che l’azione cui tendono le politiche deve essere quella di offrire ai giovani l’accesso ad “una opportunità di lavoro qualitativamente valida”.

La Raccomandazione in materia di Garanzia rappresenta perciò una innovazione importante nelle iniziative europee di sostegno alle politiche giovanili cui l’Italia, che sta attuando ora il programma in tutte le Regioni. Molto dipenderà tuttavia da come questo piano verrà attuato a livello regionale, da come verranno coinvolti gli attori del mercato del lavoro e, soprattutto, dalle risposte del mondo delle imprese.

2) Il governo italiano sembra dedicare una specifica attenzione al problema. Nell’ambizioso piano di riforma del lavoro noto come “Jobs act” è possibile individuare alcune linee di intervento che, se portate avanti in maniera corretta, potranno invertire la rotta.

L’aspetto che sembra più interessante, all’interno di questo ambizioso programma è quello che mira a rafforzare i due pilastri della flexicurity rimasti fino ad ora in sordina: il sistema delle politiche attive del lavoro, da un lato, e i meccanismi di welfare destinati a supportare il lavorare nelle transizioni da un posto di lavoro ad un altro. Solo quando il nostro paese riuscirà ad allinearsi agli standard europei su questi due fronti sarà possibile parlare effettivamente di flexicurity, e si potrà impedire che la disoccupazione giovanile si trasformi automaticamente in esclusione sociale. Si tratta, tuttavia, di riforme che non sono a costo zero, ma richiedono ambiziosi piani di investimento da parte dello Stato. Per fare solo un esempio in materia di politiche del lavoro, secondo dati Eurostat, l’Italia investe lo 0,029% del Pil in servizi pubblici per l’impiego, a fronte dello 0,378% della Germania, dello 0,303% della Francia e dello 0,346% del Regno Unito. Con questi squilibri, è impensabile che la sola razionalizzazione dei servizi esistenti ci consenta di avvicinarci agli standard europei, ma occorrerà intervenire sul versante degli investimenti.

La strada intrapresa con la Garanzia giovani ed il Jobs Act appare quella giusta, ma è difficile dire se essa riuscirà effettivamente ad arginare quel trend che rischia di condurre all’esclusione di una intera generazione.

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