Li chiamano i “drop out”. Il termine algido e tecnico sottende a un dramma reale, che si paga oggi e si pagherà con gli interessi in futuro: sono, rispetto al numero di studenti registrati all’anagrafe scolastica, i giovani che “cadono fuori” dalla scuola. Uno ogni 100 già tra i bambini che ogni anno iniziano la scuola primaria. Cinque su 100 si fermano alla licenza elementare; 32 lasciano dopo le medie, 17 non finiscono le superiori e altrettanti non arrivano alla laurea. L’Italia, con il 17,6% di ragazzi che abbandonano gli studi, è in fondo alla classifica europea, la cui media è pari al 14,1%. (http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=2034&Itemid=1)

di Mario Centorrino, Rosamaria Alibrandi

Un recente studio ha quantificato in 70 miliardi l’anno il costo economico di questa piaga sociale. I dati (Bankitalia e Isfol), sono forniti dal MIUR, che per cercare di invertire la tendenza e scendere sotto il 10% di «school leavers» previsto da Europa 2020, secondo un “Programma di didattica integrativa e innovativa per il contrasto della dispersione” ha stanziato risorse, pari a 100 milioni, per le Regioni tenendo conto sia del numero di studenti iscritti sia della stima di “drop out”. Se per la Sardegna arriveranno 492.820 euro, la Lombardia otterrà 2,2 milioni di euro, la Campania 1,8 milioni, la Sicilia 1,5 milioni, il Lazio 1,3 milioni e la Puglia 1,2 milioni. Sarà il Molise, invece, a percepire meno fondi tenendo conto della percentuale relativa al tasso di dispersione, inferiore al 10%. Destinatari delle risorse sono gli istituti comprensivi e le scuole secondarie di secondo grado, che dovranno presentare un progetto basato su iniziative di prevenzione del disagio “causa di abbandoni scolastici precoci”, con particolare riferimento ai programmi di integrazione degli alunni di cittadinanza non italiana, in base al D.L. del 12 settembre 2013, n. 104, coordinato con la legge di conversione dell’ 8 novembre 2013, n. 128, sulle «Misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca».

A condizionare la quotidianità dei bambini, con effetti negativi sulla loro vita da adulti, è l’ “altra” povertà, quella meno evidente, e molto sottovalutata, della quale ha dato notizia l’ANSA in una nota dello scorso 12 maggio (“È povertà educativa al Sud, pochi nidi, libri e sport”). Quella che l’organizzazione “Save the Children” ha definito “povertà educativa”, misurata statisticamente attraverso una serie di indicatori, dall’abbandono scolastico alla carenza di asili nido, con altri dati relativi in genere alla penetrazione culturale resi noti in un interessante rapporto, “La lampada di Aladino” elaborato con il contributo di un comitato scientifico di cui fanno parte Daniela Del Boca (Università di Torino), Maurizio Ferrera (Università di Milano), Marco Rossi-Doria (Esperto Istruzione ed Integrazione Sociale), Maria Emma Santos (University of Oxford), Chiara Saraceno (Università di Torino).

Per combattere quella forma occulta di povertà che la povertà educativa costituisce bisogna conoscerla. L’Indice di Povertà Educativa (IPE) si calcola combinando fattori scolastici e elementi di contesto: da un lato la penuria di asili nido, la scarsa incidenza del tempo pieno alle elementari e alle medie, l’alto tasso di dispersione scolastica; dall’altro una serie di opportunità mancate nel tempo libero: niente libri né sport, niente ingressi a teatri mostre e musei. Nessuna sorpresa che le regioni più povere, quelle meridionali, siano anche quelle a maggiore povertà educativa. Unica eccezione, la Basilicata, che nonostante un tasso del 27,2% di povertà relativa minorile è la prima regione italiana per scuole medie a tempo pieno e per connessioni ad Internet e si colloca nella fascia alta anche per il servizio mensa e per i certificati di agibilità degli edifici scolastici. Il record negativo, come ricordato, (10 indicatori su 14), va alla Campania, dove meno di tre bambini su 100 frequentano il nido. Riguardo ai nidi, sta peggio solo la Calabria (2,5%), ma i dati negativi per la Campania riguardano anche il tempo pieno, il servizio mensa, le aule connesse a Internet e lo sport.

Sebbene la maglia nera spetti alla Campania, perfino Friuli Venezia Giulia, Lombardia ed Emilia Romagna, le regioni con più servizi e opportunità per i ragazzi, non reggono il confronto con l’Europa. Nessuna regione italiana è in linea con alcuni obiettivi europei quali, ad esempio, la copertura degli asili nido che dovrebbe essere del 33% (nella fascia di età 0-2 anni), e che, invece, arriva a stento al 26,5% in Emilia. La dispersione scolastica, che conta numeri altissimi in Campania e Sicilia (22 e 25,8%), anche in Valle d’Aosta è del 19%.

La povertà educativa non si misura solo a scuola, ma anche nel tempo libero: nel nostro Paese meno della metà di bambini e adolescenti fa sport in modo continuativo, e al Sud meno di un terzo. I libri e l’arte sono patrimonio di pochi: appena il 16% dei minori campani ha visitato un monumento nell’ultimo anno, e ancora meno i ragazzi calabresi (12%). In media appena la metà ha letto almeno un libro, a parte quelli di scuola (solo il 31% in Calabria e il 34% in Sicilia). Dal lato opposto della classifica, il Friuli spicca per numero di bambini che legge (il 75,7% ha letto almeno un libro nell’ultimo anno), che fa sport (il 56%), per i bassi livelli di dispersione scolastica (11,4%), e per gli edifici scolastici mediamente in buone condizioni (il 73,2%).

Più di un milione di bambini e adolescenti italiani vive in condizioni di povertà assoluta (erano la metà nel 2007, prima della crisi). Altri 3 milioni e mezzo sono a rischio di esclusione (in Europa solo alcuni ex Paesi dell’Est - Bulgaria, Romania, Ungheria e Lituania - e l’Irlanda e la Grecia, prostrate dalla crisi mostrano indici più alti). E peggio del nascere poveri è la condanna a restarlo. Le cose che mancano, non certo i “lussi”, ma quelle essenziali come un pasto a scuola o un campetto nel quale giocare, mutano l’indigenza in una sorta di ergastolo.

Come affrontare quest’emergenza? Si potrebbe puntare anzitutto al completamento dell’Anagrafe Scolastica redatta dal Miur, monitorando in modo continuo le presenze, le assenze, gli abbandoni e i trasferimenti di tutti i ragazzi in età dell’obbligo; raccogliere in modo sistematico i dati relativi al reddito e al lavoro dei genitori in modo da poter mettere in atto forme efficaci di “discriminazione positiva”; fare investimenti mirati nelle aree più svantaggiate, verificando l’impatto degli interventi anche con l’aiuto dei sistemi di valutazione già in vigore (le prove Invalsi, i test OCSE-Pisa), che dovrebbero essere vissuti dalle scuole non come strumenti di ispezione dall’alto ma come mezzi di autovalutazione; estendere la diffusione dei nidi soprattutto al Sud; garantire il tempo pieno e la mensa scolastica.

In buona sostanza, contrastare quella “povertà educativa” che priva bambini e adolescenti della possibilità di apprendere, di sperimentare le proprie capacità, offrendo loro la possibilità di scoprire e coltivare i propri “talenti”.

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