Lo scrittore Amoz Oz ha spesso sostenuto che il conflitto israelo-palestinese contrappone due popoli con due ragioni legittime per un’unica e piccola terra. Non esiste dunque una verità contrapposta a un’altra, perché entrambi i popoli esprimono il bisogno di libertà e di emancipazione. Aggiungerei però che non c’è solo un conflitto di ragioni, ma anche un conflitto di torti non riconosciuti. La questione infatti si potrà risolvere quando, da entrambe le parti, ci saranno intellettuali e politici coraggiosi che oseranno portare le loro società a una profonda opera di purificazione morale. (
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Uno di queste personalità è il presidente emerito del parlamento israeliano Avraham Burg che, intervenendo sul rapimento dei tre giovani israeliani, non solo condanna l’atto criminale dei gruppi terroristi, ma richiama la società e i politici israeliani a un esame di coscienza. Non ci sono solo gli israeliani sequestrati, ma anche migliaia di palestinesi che sono privati di una speranza per il futuro, e che spesso si fanno catturare dalle sirene del terrorismo e del fondamentalismo.
Se anche dalla parte palestinese emergeranno figure morali come quella di Abraham Burg, che esorta ad ammettere i propri torti e non solo a rivendicare i propri diritti, la pace sarà più vicina.
Per il suo valore esemplare proponiamo di seguito la traduzione dell’articolo di Burg, pubblicato su Haaretz il 18 giugno 2014.
Gabriele Nissim
I palestinesi: una società sequestrata
Non riusciamo a comprendere il grido di sofferenza di una società e continuiamo a tenere nelle nostre mani il futuro di un’intera nazione.
Stiamo soffrendo per quei tre ragazzini che fino a un momento fa erano perfetti sconosciuti, ma ora appartengono a tutti noi. Ognuno di loro potrebbe essere mio figlio o il figlio di ciascuno dei miei amici e dei loro amici. Come molti, spero con tutto il cuore che venga presto il momento in cui li vedremo tornare vivi tra noi e tutta la tensione si scioglierà in un liberatorio sospiro di sollievo. Tremando di paura, tengo viva la speranza, ma non posso e non voglio ignorare la verità taciuta che circonda il loro rapimento.
Questi tre giovani sono davvero sfortunati. Lo sono per il clima di terrore nel quale è avvenuto il sequestro, per l'incertezza e per il grave pericolo che corrono le loro vite. Soffrendo, rivolgiamo a loro il nostro pensiero e alle loro famiglie, catapultate all'improvviso nel clamore dei media. Questi ragazzi sono sfortunati anche per un altro motivo: l'ipocrisia in cui hanno trascorso il tempo delle loro vite - vite di apparente normalità, costruite sulle fondamenta della più grave delle ingiustizie israeliane: l’occupazione.
Ma lasciamo stare i loro tormenti e torniamo ai nostri. Per noi, un evento drammatico o un trauma è sempre un'occasione per riflettere con grande lucidità e chiarezza, quando vengono alla luce tutti i nostri progetti e fallimenti, paure e speranze.
Ecco l'ottuso primo ministro di Israele e la polizia incompetente, le masse che si recano a futili cerimonie di preghiera e non a quelle per la pace dell'Umanità. Ecco anche i rabbini capi ipocriti del Paese, che solo un mese fa chiedevano al Papa di impegnarsi per il futuro del popolo ebraico, ma rimangono in silenzio, nella vita quotidiana, davanti alla sorte del popolo dei nostri vicini, schiacciato dal giogo dell’occupazione e del razzismo fomentato da quei rabbini che ricevono stipendi e benefit esorbitanti.
Improvvisamente tutto si manifesta nella sua vera essenza, emergendo dalle tenebre alla luce del sole. Questo è proprio il momento di farci un esame di coscienza dato che, come ho detto, tutto avviene sotto i nostri occhi.
Prima di tutto, la superficialità di Netanyahu. Non è una cosa su cui vi sia molto da aggiungere. Dopo tutto, lui è la persona che ha portato i colloqui israelo-palestinesi nel vicolo cieco della questione del rilascio dei prigionieri, nonché colui, per dirla con le sue stesse parole, che ha violato l’impegno di Israele a rilasciare l’ultimo gruppo di prigionieri palestinesi. È anche l’uomo che ha spinto l’Autorità Palestinese nell’angolo dell’unificazione con Hamas.
Di che cosa va quindi lamentandosi, con i suoi commenti e gesti esagerati e melodrammatici? La sua reazione immediata, impulsiva e sconsiderata mostra che stava solo aspettando il momento giusto per dire: “Ve l’avevo detto”. E ora che l’ha detto, emerge la vera domanda: che cosa ci sta dicendo precisamente? La risposta dolorosa è: niente di niente.
Anche la sinistra israeliana,che si presume essere dotata di integrità morale, è diventata la bocca aperta della carpa, farcita con qualche sostanza grigiastra stesa sul vassoio del seder pasquale della destra ingorda. Anche quest’ultima, peraltro, è invischiata in una lotta disgraziata per una fetta della torta della legittimità, che appartiene a chi è in grado di ottenere il fedele consenso delle masse.
Come può essere che nessuno di loro si sia alzato, abbia tracciato una linea e abbia detto: “Chiunque sta dall’altra parte porta la responsabilità dell’accaduto”? Non è piacevole, ma è la verità (che piacevole non è mai, dopo tutto).
Prima che ci sia un rapimento – perché parlarne? Nessuno ne vuole sapere, tanto tutto è tranquillo. E al momento del rapimento non dobbiamo parlare, come ha detto il direttore esecutivo di Peace Now, perché i ragazzi rapiti non ci sono più. E una volta che tutto finisce (in quella che, Dio non voglia, potrebbe essere una tragedia personale o collettiva di cui non importa niente a nessuno), perché dovremmo parlarne? Ancora una volta tutti sono occupati con la supermodella israeliana Bar Refaeli, la Coppa del Mondo o il prossimo scandalo.
Quindi questo è anche un momento di vero isolamento, non quello delle case a cui eravamo abituati, ma quello dei cuori. Poche persone tanto a destra quanto a sinistra - tranne Gideon Levy, Uri Misgav e pochi altri commentatori cauti e terrorizzati – cercano di capire le cause profonde del rapimento.
Noi ci autoassolviamo dicendo: “I palestinesi hanno festeggiato, dopo aver sentito del rapimento”. La loro felicità ci fa contenti, dato che più li vediamo felici oltrepassando il nostro dolore, più ci sentiamo esenti dal doverci interessare a loro e alla loro sofferenza. Tuttavia non c’è un modo di aggirare il problema: è un'esultanza che va approfondita e capita a fondo.
La società palestinese nel suo complesso è una società sotto sequestro. Come molti degli israeliani che hanno svolto “un servizio significativo” nell’esercito, molti lettori di questa rubrica, o i loro figli, sono entrati nella casa di una famiglia palestinese in piena notte cogliendoli di sorpresa e sic et simpliciter, determinati e insensibili, hanno portato via il padre, fratello o zio. Anche questo è rapire e succede tutti i giorni. E che cosa possiamo dire dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane?
Che cos’è questo se non un rapimento su larga scala, ufficiale, malvagio e ingiusto al quale tutti partecipiamo e del quale non paghiamo mai il prezzo? Questo è il destino di decine di migliaia di detenuti e di altri arrestati che sono, o sono stati, nelle prigioni israeliane – alcuni per nessuna ragione, con accuse false, e la maggior parte sottoposta alla giustizia militare. Tutte cose di cui non ci occupiamo minimamente.
Tutto questo ha trasformato il tema dei prigionieri nell’argomento principale di una società sotto occupazione. Non c’è famiglia senza un detenuto o un prigioniero, quindi perché ci dovremmo stupire della loro gioia, fermi restando il nostro dolore, le nostre paure e la nostra preoccupazione? Abbiamo avuto e abbiamo ancora la possibilità di capirli.
Tuttavia, fino a quando il governo israeliano sbarra tutte le strade per la libertà, scappa da tutti i negoziati che potrebbero risolvere il conflitto, si rifiuta di compiere gesti di buona volontà, mentre viola in modo palese i suoi propri impegni, la violenza è tutto ciò che rimane per quella gente.
È già stato dimostrato numerose volte come un rapimento permetta di liberarsi degli scrupoli. Ancora una volta sembra che Israele non capisca nient’altro che la violenza. Che cosa ci suggerisce questo? Questa nostra reazione, che va da “Se lo meritano” a “Sono tutti terroristi” a “Sto seguendo degli ordini” a “Non sapevo che cosa stesse succedendo” dice più cose su di noi che sui palestinesi.
Nonostante il successo enorme ed esemplare di Breaking the Silence (una ONG che raccoglie le testimonianze dei soldati che hanno prestato servizio nella West Bank), il nostro silenzio totale è ancora il rumore più assordante intorno a noi. Siamo disposti a uscire dai nostri comodi schemi mentali per personaggi strani e controversi come Pollard, per una o tre vittime di rapimento, ma siamo incapaci di comprendere la sofferenza di un’intera società, il suo grido e il futuro di un’intera nazione che noi abbiamo sequestrato.
Anche questo va detto e andrebbe ascoltato durante questo momento di lucidità – e va detto a voce più alta possibile.
Abraham Burg, presidente emerito della Knesset