Le politiche di coesione europee in Italia rappresentano uno dei più interessanti paradossi del nostro tempo. Si tratta di interventi di grande rilevanza, sia per le loro dimensioni, sia per le loro tipologie di spesa: una delle pochissime politiche pubbliche – se non l’unica – volta oggi a sostenere il rilancio dell’economia italiana (ed in particolare degli investimenti) e a rafforzare strutturalmente le basi competitive delle imprese e dei territori, in tutto il paese. (
http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=2020&Itemid=1)
di Gianfranco Viesti
Allo stesso tempo è un argomento che viene trattato con agghiacciante superficialità nel dibattito politico e culturale, senza basi scientifiche e conoscitive serie, esclusivamente per sostenere che quello che viene fatto rappresenta uno “spreco”, che i soldi “si perdono” e che bisogna “cambiare verso”. Si sente al più proporre, molto genericamente, che occorre centralizzare maggiormente la spesa e concentrare le ricorse su grandi progetti (secondo taluni: prevalentemente infrastrutturali). Si sentono cifre roboanti (il Primo Ministro ha parlato addirittura di oltre 180 miliardi da spendere, cifra assai difficile da comprendere e giustificare), ma non sembra esservi più di tanto evidenza di un concreto interesse per il policy-making. In particolare, per i concreti documenti di programmazione, che in questi giorni stanno definendo la strategie 2014-20, in assenza di un Ministro direttamente e politicamente responsabile per ciò che si fa.
Se così non fosse, non sarebbe difficile rendersi conto che dal testo dall’Accordo di Partenariato, inviato dal governo italiano alla Commissione Europea a fine aprile con i concreti indirizzi di programmazione per il 2014-20, emergono alcune significative criticità, proprio alla luce della interessante, complessa ma problematica esperienza italiana (per un recente contributo, G. Viesti, P. Luongo, “I fondi strutturali europei: otto lezioni dall’esperienza italiana”, Strumenti Res VI/1, febbraio 2014). Criticità che invece sarebbe bene esplicitare e discutere pubblicamente.
La prima attiene alla circostanza che con i fondi comunitari in Italia si fa di tutto. Intendiamoci: questo scaturisce anche dalle indicazioni della Commissione Europea, che chiede di scegliere e concentrare le risorse su alcune priorità, ma al tempo stesso impone anche di prevedere diversi ambiti di azione e obiettivi. Ancora, non è certo semplice privilegiare alcuni obiettivi a scapito di altri, specie in una crisi profonda: il rischio è di lasciare problemi importanti senza risorse. Con l’Accordo è stata – ma solo in parte - salvaguardata l’impostazione del precedente Ministro di ridurre i fondi europei destinati alle grandi opere infrastrutturali (anche perché di durata assai lunga), finanziandole invece con le risorse nazionali del Fondo Sviluppo e Coesione. Anche se questo apre lo spinoso capitolo della disponibilità di queste ultime, per ora teorica. Eppure non si sfugge: così non va bene. Perché espone ancora questi fondi al rischio di essere quasi totalmente sostitutivi rispetto alle risorse ordinarie; in particolare nel Mezzogiorno si dà per scontato che le risorse europee siano più che sufficienti per ogni necessità (il Primo Ministro ha addirittura sostenuto che se fossero spesi come in Polonia, il gap infrastrutturale non esisterebbe più); cosa assai lontana dalla realtà. Perché rende la strategia complessa, difficile da controllare e verificare: si fa un po’ di tutto e ci si aspetta che tutto migliori. Non a caso i “risultati attesi” citati nell’Accordo sono ben 70, un numero decisamente elevato rispetto alle dotazioni, pure non piccole, dei programmi.
La seconda criticità è la più evidente. Tutti i grandi obiettivi sono tradotti in un numero straordinariamente alto di azioni previste: addirittura 336. Non è affatto vero che tutti i fondi europei siano sprecati, come sostiene una pubblicistica tanto di moda, quanto sciatta e disinformata; negli anni scorsi ci sono state azioni importanti, con risultati tangibili, che non sfigurano nel quadro europeo. Da questo punto di vista con la programmazione 2014-20 si introduce un ulteriore, positivo, forte, nesso fra azioni e concreti risultati attesi, al di là della spesa, che potrebbe portare a migliorare la qualità e i tempi degli interventi. E’ però senz’altro vero che c’è stata in passato anche dispersione su tante piccole misure: troppi interventi parziali, e con risultati modesti rispetto alla scala dei problemi che affrontano; con affaticamento delle strutture amministrative, alla prese con mille misure da gestire. E soprattutto con fortissimi ritardi nell’attuazione dei programmi. La dispersione può anche favorire un uso discrezionale delle risorse, a fini di consenso; rende difficile il controllo da parte dei cittadini. Su questo fondamentale aspetto c’era da imparare; occorreva ridurre drasticamente le azioni ammissibili, serviva una svolta. Questa svolta era stata annunciata dal precedente governo. E invece non c’è stata. Ne scaturiranno problemi già visti.
L’ultima criticità attiene al chi fa che cosa. Il documento su questo è ancora in parte reticente. Ci sono programmi nazionali e regionali, ma le allocazioni finanziarie sono provvisorie. Per queste politiche, come per molte altre, non c’è un livello di governo ottimale; non ha senso né decentrare né accentrare tutto. L’esperienza del passato suggerisce che alle regioni sono stati affidati troppi compiti, e che sarebbe bene razionalizzarli: ma se alcuni interventi è bene che siano fatti a scala nazionale, altri non possono che essere a scala regionale e locale. La questione principale è che devono essere chiari ruoli e responsabilità dei diversi livelli di governo; i meccanismi di coordinamento (in Italia particolarmente difficili, e con una storia non felice) fra centro e periferia. Va promossa a scala nazionale la collaborazione e il coordinamento fra le regioni, attraverso l’utilizzo di strumenti simili o la definizione di progetti comuni, che riducano carichi burocratici e consentano di imparare dall’esperienza degli altri, di diffondere e replicare buone pratiche; attivando ad esempio l’Agenzia per la Coesione – a questo fine promossa – e che sarebbe dovuta partire già da marzo scorso. Tutto questo non è accaduto in passato, e ha creato rilevanti problemi, specie nel Mezzogiorno. Le Amministrazioni Regionali devono avere il potere di fare scelte importanti e di metterle in atto; ma non possono pretendere di interpretare (come invece accade, specie nel CentroNord) queste politiche come un assegno in bianco di cui disporre a piacere, un menù da cui servirsi, nei fatti senza una strategia comune e senza dar conto – se non in burocratici rendiconti – delle loro scelte. Il proliferare delle azioni possibili sembra invece andare proprio in questa direzione.
Queste criticità non sorprendono, purtroppo. Sono figlie del disinteresse della politica e dell’assenza di discussione collettiva informata. Tanto più dilagano interpretazioni apodittiche in particolare del Mezzogiorno, secondo cui tutto ciò che si è fatto e si fa con le politiche pubbliche è un fallimento e quindi bisogna affidarsi solo alle virtù salvifiche del mercato, tanto meno c’è interesse a comprendere, distinguere, imparare dalla realtà e dalle esperienze – positive e negative - per migliorare le politiche pubbliche. Tanto più si tuona contro le amministrazioni pubbliche, specie regionali, tanto meno si interviene, come in questo caso, per ridurre effettivi eccessi di discrezionalità e di potere di politici e burocrati che controllano l’uso di questi fondi. Da queste criticità occorre, con pazienza, ripartire. A cominciare da una approfondita discussione degli specifici programmi con i quali ogni amministrazione, centrale e regionale, dovrà nei prossimi mesi indicare azioni, tempi e risultati precisi. Saranno scelte politiche fondamentali, non adempimenti formali: sarà bene essere molto attenti, e per quanto possibile, discuterne pubblicamente.